24 aprile 2021

LA TRANSIZIONE DIGITALE DELLE FAMIGLIE

Gli ultimi in Europa, se miglioriamo è "merito" della DAD


Segnatevi queste date: 28 maggio 2020 e 30 aprile 2021, perché con ogni probabilità i vostri pronipoti, o i loro discendenti, saranno costretti a studiarle a scuola, un po’ come noi abbiamo fatto con il 20 settembre 1870 o il 2 giugno 1946. Nulla di epico, intendiamoci, ma in futuro questi due giorni saranno forse convenzionalmente riconosciuti come momenti di svolta della cultura digitale in Italia dopo oltre vent’anni di chiacchiere a vuoto sulla presunta crescita esponenziale delle tecnologie informatiche e sulla altrettanto presunta progressiva alfabetizzazione della popolazione per tutto ciò che riguarda l’utilizzo del web: due belle favole che cominciarono a circolare già alla fine degli anni ’90, quando Internet da noi viaggiava ancora sul doppino telefonico con la lentezza che soltanto chi oggi ha i capelli bianchi può ricordare.

Savoia

Per il primo vero salto nella società digitale ci è voluta una pandemia, con tutto quello che ne è conseguito. E naturalmente ci è voluto Next Generation EU, il piano da 750 miliardi di euro che l’Unione Europea ha stanziato per far ripartire l’economia dei Paesi membri.

Perché riteniamo così importanti queste due date è presto detto. Il 28 maggio 2020 il Comitato tecnico scientifico, che era stato chiamato ad esprimersi su come sarebbero potute riprendere le lezioni a settembre in caso di nuove ondate di Covid, presentò un rapporto in cui si leggeva la sigla Dad, didattica a distanza, come misura per continuare a svolgere il programma dei vari livelli scolastici facendo lezioni via computer.

Il 30 aprile 2021 è invece la data in cui il governo Draghi consegnerà alla Commissione Europea il Piano nazionale di ripresa e resilienza, in cui uno dei tanti obiettivi della Transizione digitale è stato individuato nel superamento del digital divide, vero e proprio muro che ancora separa intere zone del Paese non consentendo connessioni rapide e stabili, per abbattere il quale il ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha annunciato lo stanziamento di 3,3 miliardi di euro. E’ vero che siamo ancora agli annunci, secondo lo stile consolidato della comunicazione politica all’italiana. Ma il gigantesco nuovo Piano Marshall continentale prevede che il 20 per cento delle risorse messe a disposizione di ciascun Paese venga indirizzato proprio verso la digitalizzazione. Quindi si spera che alle parole questa volta facciano davvero seguito i fatti.

Torniamo alle date, in particolare al maggio 2020, perché è proprio da quel momento che cambiano molte abitudini e molti consumi degli italiani. Per le abitudini, sappiamo come è andata: nelle famiglie che potevano permetterselo, con case abbastanza grandi e un numero sufficiente di dispositivi, tra le 8,30 e le 9 scattava la campanella virtuale e ognuno si ritirava nelle proprie stanze per studiare o lavorare. Ma erano molti di più coloro che non potevano permetterselo. In questo caso si passava a condivisioni volanti tra genitori e figli, tra fratello e sorella, spesso all’interno di spazi comuni, con conseguente difficoltà di comprensione dal punto di vista didattico.

Sugli spazi c’era poco da fare: le case quelle erano e quelle sono rimaste. Invece per quanto riguarda i consumi dobbiamo partire da un primo ma significativo segnale che risale allo scorso novembre: il rapporto di Federconsumatori in cui si lanciava l’allarme sui rincari fino quasi al 14 per cento di prodotti come pc e tablet, rincari dovuti agli acquisti massicci di dispositivi per lavorare o seguire le lezioni da casa, agevolati anche dai bonus da 500 euro che molte Regioni avevano messo a disposizione delle famiglie per attrezzarsi. Era la prova che stava cominciando la corsa ai dispositivi: oggi per questo segmento di mercato si parla di crescita record dell’Italia rispetto agli ultimi dieci anni. Mentre il mercato mondiale, secondo il sito Hardware Upgrade, sta facendo registrare un balzo del 12,7 per cento.

Tutto bene, quindi, per ciò che riguarda l’alfabetizzazione digitale? Non proprio. Basta uno sguardo ai dati Istat per scoprire che la situazione italiana, almeno fino a metà 2020, non raggiungeva neppure la sufficienza, in barba agli entusiasmi legati alla Dad e allo smart working. In un report di un anno fa sulla distribuzione di pc e tablet si legge che solo il 47,2 per cento delle famiglie aveva almeno un dispositivo e solo il 22,2 ne aveva uno per tutti i componenti (con un 14 per cento al Sud). Nella fascia di età tra i 6 e i 17 anni poi, tra le più interessate dalla didattica a distanza, il 12,3 per cento non risultava avere alcuno strumento tecnologico, il 57,9 doveva condividerlo con altre persone della casa, e che soltanto il 6,1 poteva disporre di un pc personale. Un dato al volo sugli anziani: erano 14 (sempre su cento) che risultavano avere un pc, 12 se si considerano gli accessi alla rete.

Nel medesimo rapporto Istat, alla voce alfabetizzazione tecnologica si scopriva che nel corso degli ultimi tre mesi del 2019, su 100 ragazzi che avevano usato Internet, solo 30 avevano competenze informatiche di buon livello; 34 avevano competenze basse; 32 competenze di base, mentre 3 erano totalmente privi di competenze. Altro che didattica a distanza, sarebbero serviti tanti bei tutorial sull’uso delle tecnologie.

Se si vanno poi a cercare altri dati sulla nostra realtà, si scopre ad esempio che secondo il rapporto 2021 del Digital Economy and Society Index, che analizza ambiti come connessione, capitale umano, uso dei servizi Internet, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali, l’Italia si colloca al venticinquesimo posto su ventotto in campo europeo (è ancora compresa la Gran Bretagna). Oppure si viene a sapere – dato Istat – che le infrastrutture digitali sono ancora un grosso problema per il Sud, dove le famiglie che usano Internet con fibra ottica non sono più del 30 per cento, contro il 44 della media europea.

E’ da questi numeri che dobbiamo partire se vogliamo capire qual è il livello della nostra società digitale. Che non è elevato. Fortunatamente, come abbiamo visto, per cause di forza maggiore sanitaria e per i fondi in arrivo dall’Unione Europea, forse adesso qualcosa comincerà a muoversi. Ripensandoci, avremmo dovuto prestare maggiore attenzione a quanto il giurista Stefano Rodotà propose nel 2010: aggiungere alla Costituzione l’articolo 21 bis che avrebbe dovuto stabilire il diritto all’accesso a Internet per tutti, “al fine di eliminare buona parte degli ostacoli economici e sociali”. Ma la proposta venne lasciata cadere nel vuoto da decisori politici sempre troppo distratti sulle questioni che non capiscono e che non portano consenso immediato: continuarono così, questi decisori, a raccontarci che la nostra transizione verso la società digitale stava procedendo velocemente, senza intoppi. Era l’ennesima favola sulla modernizzazione all’italiana, tante chiacchiere e pochi fatti. Ci ha pensato il Covid a smascherarla.

Ugo Savoia



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