4 ottobre 2020

UN GREEN DEAL ISPIRATO A UN NUOVO BAUHAUS

I fondi europei non sono l’albero della cuccagna


Recovery-fund

Nel sistema di comunicazione, sia politico, sia giornalistico, la recente programmazione finanziaria dell’Unione Europea è spesso assimilata all’albero della cuccagna, a cui le diverse istituzioni posso attingere a loro piacimento, indipendentemente dai meccanismi gestionali messi in atto dall’Unione, da cui i ricorrenti (ed irritanti) quesiti: come spenderemo i soldi dell’Europa? quando arriveranno? serviranno alla ripresa? (sottintendendo del vecchio modello di sviluppo).

In tale narrazione il termine ‘spesa’ è dominante, non c’è riflessione su quanto accaduto dopo la crisi finanziaria del 2008 o in occasione dell’imponente azione europea a favore del Mezzogiorno alla fine degli anni ’90 con il programma Obiettivo 1.

Come ricorda Mariana Mazzucato in “Capitalismo dopo la pandemia” (Foreign Affairs, 2 ottobre 2020) dopo la crisi finanziaria del 2008, i governi di tutto il mondo hanno iniettato oltre 3 miliardi di dollari nel sistema finanziario con l’obiettivo di sbloccare i mercati del credito e far funzionare nuovamente l’economia globale. Ma la maggior parte degli aiuti invece di sostenere l’economia reale è finita al settore finanziario. I governi hanno salvato le grandi banche di investimento che avevano contribuito direttamente alla crisi, e, quando l’economia è ripartita, sono state quelle banche stesse a raccogliere i frutti della ripresa. I contribuenti sono rimasti con un’economia globale in crisi, disuguale e ad alta intensità di carbonio, come prima. In sostanza i governi hanno socializzato i rischi ma privatizzato i premi.

Si è assistito allo svuotamento del ruolo dei governi, ridotti a erogatori di sussidi, perpetuando la falsa idea che il settore privato sia l’unico creatore, non un co-creatore, di ricchezza e che il settore pubblico sia semplicemente un esattore di imposte, che sottrae profitti per distribuirli in beneficenza, lasciando poco spazio all’istruzione e all’assistenza sanitaria, che sono sottofinanziati.

Si spiega così come tanti politici, imprenditori, giornalisti parlino di “spesa” pubblica piuttosto che di “investimento” pubblico. 

Molte delle condizioni problematiche che stiamo vivendo – la distruzione e lo sfruttamento della natura, la crescita pervasiva della disuguaglianza, la fragilità derivante dal fatto che poche catene iper efficienti controllano quote rilevanti delle forniture – hanno cause riconducibili agli incentivi insiti nel nostro attuale sistema economico. Ma, come ricorda il World Economic Forum, se dovesse continuare tale trend oltre la metà del PIL globale sarebbe minacciato dalla perdita di natura. 

In definitiva, per uscire dalla crisi dobbiamo ricostruire in modo diverso. Se ci concentriamo semplicemente sulla creazione di posti di lavoro e sul paradigma della sola crescita economica, si manterranno gli stessi modelli che ci hanno portato a questa crisi e ne emergeranno di nuove.  

Come osserva la Commissione europea , “l’opportunità di uscire dalla crisi in modo più verde ed equo non può essere sprecata in nome dell’urgenza”.

Quindi diffidare da chi si chiede “cosa faremo con i soldi dell’Europa?”, perché l’Italia ha approvato un impegnativo palinsesto ‘patrimoniale’ europeo, e quindi, la questione è il suo qualificato contributo alla messa in opera di tale palinsesto.

Esso si fonda sulla realizzazione del “Green Deal” grazie alle risorse del Bilancio 2021-2027 (“EU Budget for the future”, integrate, a causa della pandemia, con i piani del “recovery fund” (“Next Generation Plan”) per il periodo 2020-2021, e con la riforma del sistema sanitario prevista dal piano anti-pandemico.

Questi provvedimenti sono supportati da

  • un insieme organico di documenti di base che riguardano: il fondo di transizione verso il Green Deal (GD), GD e l’economia circolare, GD e la strategia per la biodiversità e Il futuro dell’Europa digitale;
  • da un quadro di correlazione con gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU;
  • da un preciso piano di investimenti e cronoprogramma degli interventi-che i politici dovrebbero considerare con più attenzione.

Il Green Deal ed il suo apparato operativo si configurano quindi come un sistema organico complesso basato su:

– vivere entro i limiti del pianeta per contrastare con politiche resilienti gli effetti del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità, del moltiplicarsi delle pandemie.

– associare il pensiero scientifico con la capacità creativa, dobbiamo pensare come fossimo un nuovo ‘Bauhaus’ sostiene la Presidente della Commissione nel suo discorso sullo stato dell’Unione.

Vivere entro i limiti del pianeta.

Il Green Deal, la cui impostazione risale alla dichiarazione di Toledo (2010), assume come punto di riferimento il lavoro “Planetary Boundaries”, del gruppo di ricerca diretto da Johan Rockstrom (Stokholm Environmental Institute, 2009), che ci rende consapevoli della criticità di quattro processi: cambiamento climatico, integrità della biosfera, cambiamento nell’uso del suolo, e cicli biogeochimici. Questi processi (o confini) sono interconnessi e nessuno di essi può essere risolto isolatamente. Il Green Deal fa propri questi principi (Europe Environmental Agency, Is Europe Living Within the Limits of Our Planet? 2020) dando priorità a tre crisi – climatica, sanitaria e dell’ecosistema – ed invitando tutti i paesi e regioni europei a non superare i “limiti del pianeta”, lavorando in modo olistico, prestando attenzione alle interconnessioni tra obiettivi ambientali e tra sistemi sociali e ambientali, operando prioritariamente attraverso le seguenti leve:

rilevazione dei flussi di pressione ambientale (o impronta dei consumi). Implica monitorare la catena spaziale degli impatti ambientali che si verificano a seguito dell’utilizzo di un prodotto, materiale o di un servizio partendo dall’approvvigionamento per finire con lo smaltimento. 

Questo approccio è importante perché permette di riconoscere i flussi di carico ambientale fra diversi paesi o regioni. La rilevazione dell’impronta dei consumi è indispensabile soprattutto per le città, perché il valore dell’impronta è determinato dall’implicazione di molti territori. La rete C40 Cities ha recentemente mappato le emissioni basate sui consumi delle città partner e ha rilevato che l’80% del loro carico ambientale è esogeno, ossia solo il 20% delle emissioni di tali città, ad alto reddito, gravano sul loro territorio, il restante 80% grava su territori esterni che forniscono le materie prime, i manufatti, o smaltiscono i loro rifiuti.

La rilevazione dell’impronta dei consumi è fondamentale per l’Italia, perché permetterebbe una serie di politiche collaborative con le regioni del sud, fondate sull’obiettivo comune della riduzione del carico ambientale, che supererebbe la triste tradizione dei sussidi o dei falsi sviluppi industriali;

azioni per il rafforzamento delle risorse naturali, perché i flussi della biodiversità, dei flussi biogeochimici (dell’azoto e del fosforo), delle trasformazioni dell’uso del suolo e dell’uso di acqua dolce condizionano l’ecosistema alimentare. Questi flussi, che costituiscono l’ecosistema dei beni primari di sussistenza, sono posseduti fortunatamente in abbondanza dall’Italia, ma sono ugualmente trascurati, al punto da non disporre di un adeguato data base di tale patrimonio. Il Green Deal da l’occasione di riprogrammare l’intera catena del valore del ciclo alimentare, con l’azione ” strategia dalla fattoria alla tavola” sull’alimentazione sostenibile, che costituisce un’opportunità per riqualificare il ruolo del nostro paese nel quadro globale europeo;

azioni per la rigenerazione delle risorse fisiche. Il Green Deal è l’occasione di un decisivo reset dell’attuale modello di sviluppo urbano, ancorando il suo processo rigenerativo all’obiettivo di contenere in 1.5° il tasso di riscaldamento del clima, da cui l’accelerazione degli accordi di Parigi, la proposta di nuove norme per contenere l’uso dei suoli, un’epocale azione per le ristrutturazioni edilizie per accelerare il processo “0 Carbon”, una riprogrammazione dei trasporti pubblici a favore della mobilità regionale e una revisione dell’apparato produttivo in chiave circolare, che prevede la radicale rigenerazione dei settori: tessile, edilizia, elettronica, materie plastiche.

Come si vede abbiamo l’opportunità di una radicale revisione del nostro modello di sviluppo urbano, ma dobbiamo prendere atto che non disponiamo delle strutture cognitive per avviare tale processo. È questa la priorità che possiamo soddisfare con il Green Deal: partiamo dalla costruzione di adeguati data base, poniamoci realistici programmi di ristrutturazione produttiva, sviluppiamo un sistema di intelligenza distribuita a scala urbana, ripensiamo sistemi biotici compatibili con la vita della città, riqualifichiamo il sistema educativo;

sviluppo di un piano per contrastare nuove pandemie. Di fatto la pandemia ha avuto un effetto dirompente sull’organizzazione del sistema sanitario: il big box della cura ospedaliera è stato in gran parte sostituito dall’allargamento della portata delle cure domiciliari, grazie ai processi di miniaturizzazione degli strumenti di cura; la sanità di ‘volontariato’ ha mostrato tutta la sua efficienza, la filiera dei medici di base è stata sollecitata verso ruoli proattivi; i supporti ‘civili’ alla cura sono stati sollecitati verso più alti livelli di integrazione con i livelli sanitari, per quanto riguarda la fornitura di supporti sanitari (medicine, mascherine, cc…) e di sussistenza (alimenti, vestiario, ascolto..), i dati, se fossero stati usati, avrebbero mostrato tutto il loro potenziale predittivo.

Tutto questo segna la fine del sistema gerarchico delle cure e della parcellizzazione delle competenze istituzionali, a favore di un nuovo disegno della sanità in chiave ecosistemica e vicina 24/24 h ai cittadini, tracciando la via a nuovi livelli di convivenza.

Ciò urta contro il patto imprese sanitarie private-pubbliche amministrazioni che governa in modo diverso ogni realtà regionale italiana e contro l’incapacità dello Stato di mediare creativamente le nuove diversità che il virus ha fatto emergere. Le argomentazioni contro il MES non sono che un tragico espediente per difendere questo negativo stato di cose. L’opportunità di sviluppare un piano pandemico diventa così il banco di prova della società civile a difendere nuovi livelli di democrazia.

Un nuovo Bauhaus europeo

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in occasione della sua relazione su “Lo stato dell’Unione” ha annunciato, come parte integrante del Recovery Fund, l’intenzione di creare un nuovo Bauhaus, ispirato alla famosa scuola di design fondata da Walter Gropius nel 1919. Con questo la Presidente instaura un importante principio: che il processo avviato dal Green Deal non è solo ambientale o economico, ma è un nuovo progetto culturale per l’Europa basato su arte e creatività, per avviare attraverso nuove convergenze uno spazio di co-creazione in cui biologi, fisici, matematici, architetti, ingegneri… lavorano insieme con lo scopo di “cambiare il modo in cui trattiamo la natura” come dice Ursula von der Leyen.

Si apre così un nuovo spazio in cui una visione antropocenetica dello sviluppo, ossia di piena compatibilità fra uomo e tutti i viventi, deve essere accompagnato a una radicale revisione del sistema di apprendimento, di cui i forzosi metodi a distanza da lockdown non sono che una minima anticipazione.

Conclusione (provvisoria)

Nello spazio di un articolo non sono ripercorribili tutti i complessi percorsi di rigenerazione di sistema programmati dal Green Deal e dai suoi elementi applicativi, ma spero di aver contribuito alla conoscenza della sostanza della questione di cui si fa carico l’UE e di cui dobbiamo responsabilmente farci carico: l’iper sfruttamento dei beni comuni. Infatti, il cronoprogramma operativo che dobbiamo implementare si basa sul principio che la salute umana è collegata alla salute del pianeta perché mentre continuiamo a trasgredire i confini biologici dei nostri territori attraverso economie estrattive e dispendiose, minacciamo i sistemi naturali di supporto vitale che li mantengono stabili. Da qui i rischi globali come le pandemie, che, come spiegano Johan Rockstrom e Ottmar Edenhoffer, “sono direttamente collegati alla scarsità di beni pubblici come il controllo delle malattie, nonché all’uso eccessivo di beni comuni come l’aria pulita e l’acqua, un clima stabile, biodiversità e foreste intatte” (sulla trattazione dello sfruttamento dei beni comuni si vedano:L’Europa può prosperare entro i confini planetari?” e “Per “ricostruire meglio”, è fondamentale un approccio sistemico in Metabolic.nl).

Il malfunzionamento dei beni comuni ad esempio sotto forma di aria inquinata (un processo che ha tutta la sua evidenza nei territori padani) hanno agito come amplificatori della pandemia, peggiorandone gli effetti.

Tale malfunzionamento è favorito dall’attuale sistema economico, che ha eroso molte imprese e istituzioni comunitarie con una tradizione culturale tesa alla cooperazione piuttosto che alla concorrenza; con il mito dei guadagni individuali i beni comuni sono diventati un sovraccarico, con il risultato di erodere i sistemi di supporto vitale a favore di remunerazioni a breve termine.

Per contrastare tale tendenza il Green Deal non è l’albero della cuccagna, ma lo stimolo a raccogliere e condividere tempestivamente dati sullo stato dei sistemi terrestri al fine di definire, in modo scientificamente fondato, la quota sostenibile di risorse di ogni territorio, per avviare efficaci e creative forme di gestione collaborativa e intersettoriale fra soggetti pubblici e privati, per ridurre al minimo il ritardo del feedback tra le azioni e l’esaurimento delle risorse.  Alla definizione di questo quadro operativo e gestionale dovranno seguire azioni per impedire riduzioni delle protezioni ambientali, per tagliare i sussidi ai combustibili fossili, per introdurre una tassa sul carbonio, per provvedimenti di sostegno condizionati ad impegni sulla sostenibilità ambientale, per politiche fiscali progettate per riflettere i costi reali delle decisioni economiche, ossia al netto dei costi ambientali. 

Giuseppe Longhi



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  1. luigi caroliSagge parole, caro Giuseppe. Peccato che, leggendole, Bonomo di Confindustria e i capetti dei grandi partiti (al Governo e non) si farebbero delle grandi risate. Vogliono tutti la loro fetta da "spendere", non da "utilizzare".
    15 ottobre 2020 • 17:42Rispondi
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