8 luglio 2020

MUSICA E LOCKDOWN

Luci ed ombre di una stagione di volonterosi


La conclusione della stagione musicale milanese è stata una via di mezzo fra l’eroico e il patetico. In queste ultime settimane abbiamo cercato di raccontare quelle che i napoletani chiamano le “pezze a colori” che le nostre istituzioni hanno dovuto inventare per riprendere in mano la situazione, costruire programmi e reclutare artisti con tutte le incertezze su distanze, mascherine, sanificazioni, prenotazioni e biglietti on line, ridotte agibilità degli spazi, costante dipendenza dai bollettini sanitari della Protezione Civile, dall’ultimo decreto del Governo o ordinanza regionale e via di seguito.

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Eroici perché tutti hanno fatto il possibile e l’impossibile per dare un segno di vita e dimostrare la volontà di ripresa, in alcuni casi riuscendovi brillantemente; patetici perché alcune proposte si sono rivelate al di sotto di ogni ragionevole attesa come, ad esempio, i tre spettacolini messi insieme alla Scala giusto per dire che “abbiamo riaperto” e per permettere a qualche sparuto turista di visitare il teatro!

Emblematica di questa situazione, per la difficoltà di mettere insieme programmi ragionevoli in tempi così difficili, si sta rivelando la “Beethoven Summer” all’Auditorium, che nei mesi di luglio e agosto – come abbiamo anticipato – prevede l’esecuzione integrale delle Sinfonie e dei Concerti per pianoforte e orchestra, appunto, di Beethoven: nove tornate, due delle quali sono già alle spalle. Della prima – con l’Imperatore eseguito e diretto da Alexander Romanovsky – abbiamo già riferito; della seconda, che ha visto Alexander Lonquich dirigere la Seconda Sinfonia e poi suonare e dirigere il Quarto Concerto, è più complicato riferire per la palese discontinuità riscontrata fra le due opere.

Il meraviglioso Concerto per pianoforte e orchestra opera 58 in sol maggiore ha offerto a Lonquich la possibilità, nonostante le acrobazie necessarie per suonare e insieme dirigere l’orchestra, di esprimere al meglio la sua conclamata maturità di pianista e di restituirci una splendida lettura, ricca sia emotivamente che tecnicamente. Una lettura perfetta ed appassionata di questo capolavoro che rappresenta il momento in cui Beethoven si libera definitivamente dell’eredità mozartiana e spicca il volo solitario che lo porterà alle vertiginose ultime sue opere. Ancora una volta (era già accaduto la settimana scorsa con l’Imperatore) il movimento centrale del Concerto è risultato essere la pagina più intensa ed espressiva; in essa il pianoforte e l’orchestra intessono tra loro un dialogo di grande intimità e forza che Lonquich ha saputo mirabilmente gestire facendo vibrare entrambe le parti con potente espressività. Bravissimo. Della Sinfonia numero 2 opera 36 in re maggiore, con la quale si è aperta la serata, devo invece dire che la direzione di Lonquich è stata deludente, scarsamente approfondita e sostanzialmente scolastica, senz’anima e per nulla avvincente.

Ma perché si chiede ai solisti di fare i direttori? Non sono bastati Salvatore Accardo e Vladimir Ashkenazy – giusto per citarne due, ma l’elenco è lungo, comprende certamente András Schiff e in qualche misura anche Daniel Barenboim – a dimostrare che sono due mestieri diversi e sostanzialmente tra loro incompatibili?

Entro certi limiti può anche funzionare. Prendiamo i casi del Quarto e del Quinto concerto di Beethoven appena ascoltati in Auditorium diretti da due pianisti: è noto che questi due concerti, a differenza dei primi tre, affidano al pianoforte una parte preponderante rispetto all’orchestra e si può presumere che il solista tragga qualche giovamento nello stabilire un rapporto diretto con i professori d’orchestra, senza l’intermediazione di un direttore terzo. E’ certamente difficile, obbliga ad acrobazie non da poco, implica da parte del solista-direttore un impegno smisurato e molto dipende dalla conoscenza e dall’empatia fra chi siede al pianoforte e chi è dietro ai leggii; talvolta dunque, facendo attenzione che l’opera non si trasformi in un “concerto per pianoforte con accompagnamento dell’orchestra”, si può anche osare.

Ma da qui a far salire sul podio artisti che hanno dedicato la vita al pianoforte o al violino e fargli dirigere una partitura prettamente sinfonica, c’è di mezzo altro che il mare, un oceano! La direzione d’orchestra è uno dei mestieri più difficili e rischiosi, comporta l’impervia capacità di gestire e tenere sotto controllo tante parti diverse di testi terribilmente complessi – come nel caso delle grandi Sinfonie, da Beethoven a Mahler – e di trascinare una massa di musicisti professionisti, dotati di singole personalità, verso un’unica “visione” interpretativa della partitura che, partendo da una scrittura necessariamente scarna e sommaria, necessita di un colossale lavoro di scultura e di cesellamento. Non basta essere un bravo solista o un colto musicista, occorre una disciplina ferrea e la vita intera ad essa dedicata.

Le prossime tappe della Beethoven Summer saranno tutte affidate al direttore stabile dell’Orchestra, Claus Peter Flor, non nuovo a queste “integrali” in cui talvolta, per la ristrettezza dei tempi, si deve sacrificare la qualità alla completezza dell’impresa; ci auguriamo – e gli auguriamo – di riuscire a tenere alta la guardia perché la “ripresa” – e la particolare arditezza del programma – in mezzo alla scarsità e alla povertà di offerta che caratterizza la fine di questa impossibile stagione musicale, capita in un momento magico che sarebbe un delitto sprecare.

Poi non ci resterà che sperare in qualche scampolo di festival estivo miracolosamente sopravvissuto alla pandemia. Sembra che ben pochi riusciranno a superare le arcinote difficoltà organizzative e la mutata tipologia del pubblico, con pochi stranieri, molta paura, enormi incertezze. Forse la musica è fra tutte le arti – e fra tutte le manifestazioni culturali – la vittima più sfortunata e penalizzata da questa stagione in cui, se abbiamo sofferto noi ascoltatori, immaginate quanto debbano avere sofferto gli artisti, specialmente i più giovani.

Paolo Viola



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