29 maggio 2020

COLTIVARE LA PROSSIMITÀ

Un’urbanistica per ogni fase della vita


Difficile non aver notato, particolarmente in questi mesi di reclusione, l’abissale differenza tra quei quartieri – più che altro centrali –, dove si è conservata una dimensione “umana” (alimentari, giardinetti, panchine, piccoli negozi…), e le grandi aree di deserto cittadino – più che altro nei pressi di grattacieli and co. -, prive di quella dimensione di quartiere, così necessaria soprattutto ai cittadini più deboli.

 

tonon

Bisogna prestare attenzione alla solitudine delle persone anziane […] la città deve riconoscere la centralità dei bambini e degli adolescenti”. Leggendo 2020, Strategie di adattamento, il documento predisposto dal Comune di Milano per affrontare la Fase 2 del Coronavirus, sembrerebbe che gli amministratori milanesi abbiano finalmente fatto tesoro della lezione contenuta in Pianificazione per le diverse fasi della vita, lo scritto di Lewis Mumford, comparso su Urbanistica nel primo numero del dopoguerra, laddove il grande studioso della città sosteneva che “L’attività urbanistica finora è stata quasi esclusivamente concentrata attorno alla vita degli adulti, e per di più intorno a certi aspetti soltanto”, dimenticandosi che il compito dell’urbanista “è quello di provvedere un ambiente adatto ad ogni fase della vita dall’infanzia alla senilità1.

È in questa prospettiva, e non solo “per ridurre gli spostamenti”, che è giusto “riscoprire la dimensione del quartiere” e assicurare che tutti i servizi essenziali siano facilmente accessibili a piedi nel raggio di 15 minuti. Lo sosteneva nel 1946 su Metron anche Josè Luis Sert2, tra i pochi protagonisti dell’urbanistica moderna a sostenere la necessità della scala umana. Quali sono, tra i vari servizi essenziali, quelli che in un quartiere non possono mai mancare, perché indispensabili ad assicurare una dignitosa qualità della vita? E come dovrebbero disporsi nello spazio per evitare, nel caso di una nuova pandemia, rischiosi assembramenti e soprattutto permettere a un bambino e ad un anziano di accedervi senza difficoltà?

Nell’elenco andrebbero messi al primo posto non gli affollati e spesso distanti supermercati, ma i negozi di alimentari di piccole e medie dimensioni, da collocarsi il più vicino possibile alle abitazioni. Un bambino di undici anni può andare tranquillamente da solo a comprare per esempio il latte o il pane se il negozio è sotto casa, ma certo non può andare al supermercato non accompagnato, mentre per un anziano che vive solo e magari con una piccola pensione, i negozi di alimentari, di solito frequentati quotidianamente, possono anche rappresentare occasione di relazioni sociali.

Ma i negozi di alimentari sono proprio quelli che una politica incapace di frenare il dilagare della grande distribuzione ha portato in maniera massiccia alla chiusura. Contemporaneamente, complice il libero dispiegarsi delle leggi del mercato e gli affitti eccessivi dei locali, sono entrate in crisi le librerie, le edicole e diversi altri negozi tradizionalmente di quartiere come le cartolerie, le mercerie, i ferramenta. Impossibilitati a reggere la concorrenze delle grosse catene distributive e del commercio online, sono stati anch’essi soppiantati da enormi e altrettanto affollati spazi di vendita, pensati per un raggio di utenza molto ampio, per chi cioè può usare l’auto o un mezzo pubblico di trasporto, non certo per dei bambini e degli anziani che devono andare a piedi.

Risultato: private delle botteghe, che per numero e varietà le rendevano animate lungo tutto il loro percorso, molte strade urbane si sono impoverite, in alcuni casi desertificate, rese insicure, nonostante esse, insieme alle piazze, rappresentino gli spazi per eccellenza dell’abitare collettivo. Abitare e abitazione non sono la stessa cosa. Il modo urbano di abitare significa poter frequentare lo spazio aperto pubblico delle strade e delle piazze, gli spazi primari di relazione che compongono il corpo della città e ne definiscono l’identità. La “sofferenza” vissuta da tanti cittadini per il confinamento domiciliare di questi mesi ne è la riprova. D’altro canto, il dilagare di ristoranti, bar, pizzerie e gelaterie in sostituzione dei vecchi negozi, favorito dalla liberalizzazione delle licenze commerciali del 1998, in mancanza d’ogni preventiva valutazione sulla loro compatibilità o incompatibilità con la residenza, non ha reso migliore la vita degli abitanti. La cosiddetta movida, che il proliferare di quelle attività tende ad assecondare, l’ha spesso peggiorata.

Come puntualmente osservato nel 1961 da Jane Jacobs in The Death and Life of Great American Cities3, l’esperienza dei luoghi ci offre la seguente lezione: senza il vitale andirivieni dei pedoni sui marciapiedi, nutrito dall’affaccio degli androni e da una equilibrata e variegata distribuzione di attività ai piedi delle case, viene a mancare sia il presidio che rende la strada frequentabile senza pericolo da un bambino, sia una delle condizioni che possono configurarla come uno spazio di passeggio – lo “sport” più praticato proprio dagli anziani.

Uno scenario che sarebbe possibile ricreare, a tre condizioni: 1. che venga ridotto il volume e la velocità del traffico, causa non più sostenibile di inquinamento e che rende certe strade di Milano simili a vere e proprie camera a gas; 2. che venga impedito alle biciclette e ai monopattini degli adulti di sfrecciare sui marciapiedi e alle auto di continuare a sottrarre spazio alla sosta e al movimento dei pedoni; 3. che la scena sia invitante, configurata in modo tale da consentire alla dimensione colloquiale e al bisogno di ritmo e armonia, propri dell’essere umano, di riconoscersi e di sentirsi a casa.

A Milano, anche il tessuto costruito sull’impianto otto-novecentesco dei piani Beruto e Pavia-Masera, con le cortine dei suoi isolati in gran parte ancora a dimensione umana, capaci di rendere le strade simili alle stanze di una casa alcune piccole e modeste, altre più ampie, talvolta sfarzose offre numerosi esempi di spazi che invitano a passeggiare e altrettanti che potrebbero facilmente diventarlo se solo venissero pedonalizzati o alberati. Un filare di alberi, per esempio, può rendere splendido il paesaggio di una strada anche se le sue cortine non spiccano, come in via Dante, per qualità architettoniche. Basta immaginare cosa sarebbe Corso Plebisciti senza la meraviglia dei suoi ippocastani, o Via Bronzetti senza l’apoteosi dei suoi bagolari, o i viali di circonvallazione senza l’imponenza dei platani. È l’estetica d’assieme, non l’estetica dell’oggetto, a fondare la bellezza dello spazio urbano.

Dove la successione delle facciate è senza pretese e non ci sono alberi a riscattarle, le strade urbane riescono comunque a configurarsi come ambienti civili, adatti ad educare i bambini, i futuri cittadini, a non crescerli arroganti e individualisti. Gli edifici che compongono le cortine degli isolati, oltre ad essere di dimensione umana, si dispongono infatti gli uni accanto agli altri senza prevaricazioni, senza eccessi esibizionistici, a comporre in armonia le differenze. È come se, con quel loro disporsi e affacciarsi, volessero limitare le diseguaglianze sociali ed evocare il rispetto reciproco che deve governare i comportamenti individuali in una comunità civile.

L’opposto di quello che comunica il nuovissimo paesaggio antiurbano, tutto grattacieli e vuoti alberati smisurati ai piedi, di lecorbuseriana memoria, che rischia di soppiantare definitivamente la domesticità degli spazi aperti milanesi, uno dei valori che per moltissimo tempo ha reso la città ambrosiana unica nel quadro delle metropoli europee. Con i suoi fortilizi smisurati, indifferenti al contesto, indisponibili ad ogni fisica relazione, competitivi tra loro, i volti più bislacchi, gli atteggiamenti più scomposti, il nuovissimo paesaggio non comunica comportamenti e valori civili. Esibisce e celebra solo le potenzialità della tecnica, lo strapotere dei nuovi ricchissimi padroni dello spazio e il diritto dell’architetto famoso a dare libero sfogo alla sua personalissima concezione estetica, anche se fonte di disagio per la sensibilità di molti.

Ma prima di ogni altra condizione, perché le strade urbane possano essere definite un luogo dell’abitare collettivo e non mero spazio di transito e sosta a misura esclusiva di turisti e city users, occorre che gli edifici che vi si affacciano siano abitati. Senza abitanti, strade e città muoiono, anche le più belle. Se si permette che il tessuto edificato originariamente residenziale venga eroso da uffici e funzioni commerciali – come è successo in tanta parte del centro di Milano a partire già dagli anni trenta e poi via via fino ad oggi – lo spazio aperto pubblico diventa inabitabile, superaffollato e rumoroso di giorno, deserto e pericoloso di notte. Non solo: si creano le condizioni per incursioni speculative di tutti i tipi, fonte di devastanti trasformazioni dell’uso e del significato stesso della città, come si è verificato e si sta verificando ad opera del capitalismo finanziario-immobiliare internazionale.

Si potrebbe fare un lungo elenco degli insulti che in nome del tornaconto economico, sempre massimo per gli operatori privati e in proporzione sempre misero per il Comune, ha dovuto subire persino il cuore urbano, nella cui immagine più che in altre storicamente si è radicata l’identità della città e il senso di appartenenza dei suoi abitanti, e che anche per questa ragione andrebbe sempre difesa e conservata.

Un esempio per tutti: la piazza Duomo concessa a degli esotici banani per consentire a Starbucks di farsi pubblicità e l’improponibile dehors da spiaggia con cui si è permesso al colosso americano del caffè, dopo aver stravolto e reso sguaiato l’interno di una delle architetture storiche più significative della città, di appropriarsi anche di una fetta di piazza Cordusio, rompendone e involgarendone in tal modo il prezioso, armonico, disegno.

Non si può trattare la città come un prodotto di marketing urbano, da vendere, comprare, usare, scambiare come fosse una qualsiasi merce. La città è una delle grandi invenzioni dell’umanità, un bene comune come l’aria, come l’acqua. Come l’aria, come l’acqua non può esser corrotta; sicuramente non può essere privatizzata. L’uso incivile dei suoi spazi può uccidere la città quanto la mancanza di abitanti, e di solito le due cose procedono parallelamente. Venezia per tutti insegna.

Ma a morire e a diventare inospitali, insicuri, se non sono sufficientemente presidiati, sono anche gli spazi verdi pubblici. È risaputo che molti comportamenti incivili si manifestano più facilmente nei grandi parchi, lontani dall’abitato, piuttosto che in un giardino tra le case. L’enorme spianata della cosiddetta “Biblioteca degli alberi”, senza edifici d’abitazione che la ancorino al tessuto urbano e la proteggano, tutta aperta da un lato su una trafficatissima arteria di traffico (Via Melchiorre Gioia), guardata a vista in lontananza solo da altissimi grattacieli ad uffici, incombenti come aliene torrette minacciose, di sera e di notte totalmente deserti, non può certo definirsi uno spazio urbano adatto a bambini e ragazzi. Riesce invece a risultare inospitale anche a molti adulti, anziani in particolare. Il vuoto prevalente che la caratterizza è capace di generare un sentimento di inquietudine, soprattutto se la si deve attraversare dopo il tramonto.

Senza contare, ad accentuare il senso generale di spaesamento, l’uso diffuso, totalmente fuori contesto in città, di specie vegetali cosiddette spontanee ad evocare, secondo il progettista, la campagna. In realtà evocano solo i suoi campi incolti. In ogni caso, ci sono essenze, come certi tipi edilizi, come certe parole, che da secoli appartengono esclusivamente al paesaggio agrario e altre che appartengono solo al paesaggio urbano. Mischiarle genera unicamente confusione. Per dei bambini e degli anziani meglio dunque la misura umana e il disegno urbano dei parchi, dei giardini e giardinetti della tradizione milanese. È a loro che occorrerebbe guardare, se si vuole che anche gli spazi aperti verdi contribuiscano a continuare il racconto umano della città.

Che fare nel frattempo dei parchi e dei giardini esistenti? Come minimo urge smettere di concepirli come il regno dei cani. I giardini e i parchi esistenti dentro il tessuto abitato sono pochi. Anche se la popolazione dei bambini è percentualmente in calo rispetto a quella dei cani, non si possono sottrarre, come è successo in questi decenni, enormi superfici di prato ai giochi dei bambini per assegnarle ai cani, i quali, per altro, raramente le frequentano. Mentre gli spazi a loro dedicati sono ridotti nella maggior parte dei casi in luoghi di degrado, sterrati e antigienici, i cani vengono lasciati abitualmente dai loro padroni liberi di scorrazzare nei pochi prati rimasti ai bambini. Risultato: i bambini giocano tra gli escrementi dei cani.

Certo la soluzione non può essere quella avanzata a suo tempo dal Municipio 1 per i giardinetti di Via Conca del Naviglio: “Cani liberi di correre nei parchi. Anche al di fuori delle aree a loro dedicate. Ma solo in determinate fasce orarie: quella in cui la presenza dei bambini che giocano è meno probabile”.

Graziella Tonon

1 L. Mumford, Pianificazione per le diverse fasi della vita, in «Urbanistica», a. XVIII, n. 1, luglio-agosto 1949, pp. 7-11.

2 J. L. Sert, La scala umana nell’urbanistica, in «Metron», a. II, n. 8, marzo 1946, pp. 5-19.

3 J. Jacobs, Death and Life of Great American Cities, trad. it. di Giuseppe Scattone, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Einaudi, Torino 1969.

4 a. c., Più cani che bimbi arriva l’ora dei giardinetti, in «il venerdì di Repubblica»,1° febbraio 2019, p. 39.



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  1. annacara graziella, assolutamente e totalmente d'accordo su tutto, quello che tu scrivi nn solo configura un ambiente urbano per tutte le eta', ma anche una città su misura delle donne, come un recente sondaggio, da alcune di noi condotto alla casa delle donne sull'abitare al femminile, ha messo in luce; su una cosa solo non concordo, sulla Biblioteca degli Alberi, che io trovo operazione urbanistica di grandissimo interesse per la ricucitura che opera, come ho già avuto modo di scrivere qui, tra parti diverse e lacerate della citta'; circa la sua separazione dal contesto urbano, lo sono tutti gli spazi verdi compatti delle citta, dal parco Sempione a Milano ai grandi parchi europei e americani anche se disegnati probabilmente da paesaggisti più accorti di quelli che hanno pensato lo schema un po' povero della biblioteca degli alberi; e l'isolamento e la pericolosità serale che tu citi sono gli stessi che capiterebbeto alla "Goccia" di Bovisa, se venissero accolte le richieste del comitato che ne difende la totale integrità a verde (ma io sono più favorevole a una sua integrazione con alcune e significative strutture pubbliche); per tutto il resto invece speriamo di essere ascoltate, e grazie di continuare a rinnovarne l'esigenza...
    3 giugno 2020 • 10:34Rispondi
  2. Claudia CapursoCara Graziella. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Una delle poche problematiche che ancora mi appassionano è quella delle cosiddette “ disuguaglianze territoriali “ Termine che non mi pace molto ma che almeno vuole superare la dicotomia centro-periferia o città- contado, ottiche ormai non adatte a superare i problemi territoriali. Con il coronavirus, secondo me, molti nodi sono venuti al pettine. Il problema che poni è complesso e richiede politiche che superino le soluzioni settoriali per un ragionamento che sappia cogliere le sinergie da mettere in atto, le interdipendenze tra i settori, cosa difficile stante l’attuale cultura ( o meglio non cultura) della politica attuale tutta abbarbicata nel proprio orticello. Si tratta di superare per il trasporto pubblico l’ottica economicistica di ATM ben lontana dal voler creare quella struttura portante della mobilità sul territorio, la sola che può garantire tra quartieri e centro città uguale accessibilità ai servizi pubblici e privati , agli eventi culturali, insomma alla ricchezza della città. Ma soprattutto abbiamo bisogno di una vera e propria rivoluzione della struttura del commercio bloccando ulteriori centri commerciali ( cosa dire del recente centro Esselunga a Famagosta? ) e incentivando la categoria del commercio di prossimità a passare dalla monofunzione alla plurifunzione Il commercio di prossimità, lo sanno tutti, è vitalità sociale e soprattutto presidio del territorio, tanto per parlare di sicurezza… Analoga rivoluzione è necessaria nel settore dei servizi territoriali. Qualcosa si sta muovendo per i servizi, mi pare. Il Comune ha messo a disposizione negozi , locali pubblici per associazioni e start up, è indubbio. Alcune farmacie con gestori lungimiranti stanno diventando punti di decentramento sanitario in collaborazione con i medici di base del quartiere ( fornendo esami medici , prenotazioni, informazioni sanitarie). In tempo di Lockdown , quando questo è accaduto i vantaggi per i cittadini sono stati enormi. Il discorso sarebbe lungo e spero che un dibattito si apra. Finisco con una considerazione che ha dell’assurdo a proposito di edicole. Nel mio quartiere fino all’anno scorso ce ne erano due. Ora hanno chiuso. Nella vicina stazione MM Famagosta ( famoso Centro di Interscambio) …l’edicola ha chiuso e così a Romolo ( dove c’è anche il centro ATM) Credo basti così.
    17 giugno 2020 • 13:41Rispondi
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