27 aprile 2020
MILANO NON È UNA CITTÀ PER VECCHI
Anche se Milano “è” una città di vecchi
Dalle macerie della seconda guerra mondiale nacque il Monte Stella, che considero – ma gli esperti potrebbero contraddirmi – la più felice e la più geniale intuizione urbanistica messa in opera negli ultimi secoli nella mia città. Per me bambino e per i milanesi d’allora era soltanto la Montagnetta, meta di gite quando ancora i camion risalivano le sue rampe grigie fino alla sommità per scaricare i resti di una storia e chissà quali memorie.
Ancora oggi, quando il verde è rigoglioso, arrivando in cima non manco di osservare (è quasi un controllare, perché non vada perso nulla) un blocco di calcestruzzo che affiora appena, piastrellato di quelle piccole tessere da bagno di tempi lontani e che ora sono tornate di moda. Sempre, negli ultimi passi verso la cima, quasi con monotonia, mi viene da immaginare un appartamento intorno a quel bagno, a una casa, probabilmente di buon gusto, a una famiglia che l’abitava, probabilmente di buona borghesia.
Allora non mi accorgevo neppure di che cosa stesse accadendo attorno alla Montagnetta. Poi sono cresciuto, ho studiato un po’ e ho appreso di Piero Bottoni, del Quartiere Triennale 8, delle case popolari di San Siro, del Portello… della Fiera campionaria… anche del vigore morale, intellettuale, materiale di chi aveva avviato o riavviato quelle e altre imprese, del senso di un lavoro comune.
Il coronavirus che ci stiamo lasciati alle spalle non è una guerra come quella che si erano invece lasciati alle spalle i nostri genitori o i nostri nonni, cinque anni di sofferenze, di stragi, di fame e di morti. Di fame in questi mesi di clausura non abbiamo mai sofferto, malgrado anche Papa Francesco abbia a un certo punto invocato aiuto per “la gente che ha fame”. I morti in Italia sono stati appena poco più di ventimila. Niente in confronto ai caduti d’allora, al fronte o in montagna o dentro le pareti di una casa bombardata… Però proprio dai morti vorrei cominciare, per immaginare o sperare qualcosa per Milano dopo il virus e prima che torni tutto come prima.
Tra quei ventimila straziati dal Covid si sono contati numerosi anziani. Molto spesso ho colto in chi ne parlava, autorità o vicino occasionale, sensi sì di commiserazione ma anche di rassegnato sollievo: erano vecchi, qualche patologia a carico, che potevano sperare ancora, è il destino. Si dovrebbe concludere, complice il virus, che questo non è un paese per vecchi.
L’avevano già spiegato i fratelli Coen e l’aveva annunciato un grande Tommy Lee Jones, sceriffo in pensione, sorseggiando un caffè in un bar della Contea di Terrel, Texas. Mi auguro che l’Italia si sottragga invece a questa condizione e sia ancora un paese per vecchi che hanno diritto di vivere o morire con dignità, non sono residui ma sono individui che magari hanno qualche soldo in banca, che pagano l’affitto e le tasse, che frequentano cinema teatri mostre, che contribuiscono persino al mantenimento di figli e nipoti, che viaggiano e che avrebbero molto da raccontare.
Per questo chiederei a un assessore regionale e al sindaco di Milano di occuparsi di loro, creando reti di sostegno ma anche case di riposo che non rappresentino anticamere della morte (forse la magistratura avrebbe avuto argomenti per muoversi ben prima della sciagura del Pio Albergo Trivulzio, la Baggina, o del Palazzolo, ad esempio tra le infinite e costosissime strutture private), soprattutto provando a ricostruire una città a misura di vecchi, non evochiamoli con odiosi eufemismi perché “vecchio” è una nobile parola, il che vuol dire una città “a misura d’uomo”, per usare un’espressione sempre meno di moda, cioè una città dove si possa camminare lungo i marciapiedi senza intralcio d’auto in sosta, dove si possa sedere su panchine non rottamate, dove si possa cenare in una trattoria senza essere travolti dalla bolgia di avventori costretti in tavoli a distanza di dieci centimetri uno dall’altro, dove si possa persino girare in bicicletta, dove non esistano “centri anziani” ma luoghi di ritrovo per chiunque voglia bersi un caffè e leggere un libro (meglio un libro di un giornale).
Dove si possa respirare senza temere il peggio, dove la strada o alcune strade si presentino alla stregua di luoghi della socialità (i bambini di altre generazioni sono cresciuti giocando in strada), i quartieri popolari siano, alcuni, protetti come preziose testimonianze di comunità e di storie, oppure, altri, demoliti per la loro fatiscenza, per la loro inospitalità … Perché una città “a misura di vecchi” è una città senza barriere fisiche o metaforiche, accessibile a tutti e per tutti, mentre non è vero il contrario, una città a misura di giovani esclude chi non lo è, chi non partecipa alla movida, chi non chatta in eterno, chi non sgasa sulla smart, chi non è abbastanza veloce, eccetera eccetera.
Non so come giudicare questa mia pretesa o speranza, se classificarla nella pattumiera dell’indifferenziata ammuffita o nel cassetto dei sogni.
Se devo pensare a proposte concrete e realistiche, comincerei dalle parole, che si possono cancellare con un tratto di penna senza investimenti, MES, eurobond. Con il pensiero ovviamente rivolto ai nostri “vecchi”.
Cancellerei l’espressione “modello Milano”, che ho sempre avvertito come una retorica dell’eguaglianza, delle pari opportunità, della felice e irresistibile crescita per tutti, mentre in questi anni ho solo visto aumentare in modo esponenziale la diseguaglianza reale, come realizzazione dell’arrivismo più arraffone, chi ce la fa e chi non ce la fa, a qualsiasi prezzo, distruggendo ogni forma di cultura del lavoro (e quindi della solidarietà), esaltando miti consumistici (discriminanti a loro volta) e volgarità appresso, depredando il territorio, che è un bene comune, teorizzando la congestione in pochi luoghi eletti.
Se il modello Milano (magari con la precisazione che “Milano non si ferma”) si riassume nelle fatiche di commessi, agenti immobiliari, agenti assicurativi, fattorini delle consegne a domicilio (scusate: si dice delivery), isolati, dispersi, senza una possibilità di contratto e con l’arricchimento di ogni razza di parvenus esentasse… In relazione, sopprimerei vocaboli, italiani o anglismi, tipo evento, food street, brand, climate change, social, millenials, connaturati al “modello Milano” (restrizioni porrei all’uso di “resilienza” e di “narrazione”).
Cancellerei la definizione “periferie”, perché mi sembra la consacrazione della marginalità, della segregazione, dell’abbandono, secondo una divisione di classe, mentre le “periferie d’oggi” meriterebbero la dignità di “centri”, per la loro dimensione, per le loro funzioni, talvolta per restituire la loro stessa storia (penso a Lambrate, a Niguarda, a Greco, prima delle “annessioni”). Forse i “periferici” (come indicare gli abitanti delle periferie?) si sentirebbero meno periferici e più cittadini e quindi più motivati a difendere o a esaltare la qualità della “loro” città.
Cancellerei anche il ricorso all’uso consolatorio del “decentramento”, perché dopo tante promesse mi sembra che il decentramento sia diventato uno tra i tanti mattoni alla base di un edificio burocratico e della cui esistenza non so quanti sappiano per la semplice ragione che non se ne avvertono gli effetti.
Pretenderei invece democrazia ben sapendo che la democrazia nasce dalla cultura e che la cultura nasce dalla scuola (soprattutto elementare), dalla famiglia, dal lavoro.
Cancellerei l’aggettivo “inclusivo”, almeno finché “Milano città inclusiva” sia vero per tutti.
Continuerei – e qui l’impresa si fa ardua e soprattutto extracomunale – cancellando quella riforma che ha trasformato i sindaci nella sottospecie dei sultani e i consigli comunali in vacue assemblee. La democrazia cittadina ha vissuto tempi migliori. Mi sembra per lo meno di aver assistito a battaglie politiche e amministrative di un certo spessore, mentre ora mi tocca solo di ascoltare assessori onniscienti, imbevuti del credo terziarista/ immobiliarista/ liberista che continua ad ammorbarci in gara con il virus, e consiglieri d’opposizione senz’arte ne parte. Tranne eccezioni.
Potrei continuare con le cancellazioni. Oppure potrei resuscitare parole dismesse: pianificazione, programmazione, piano regolatore. Ma non vorrei approfittare. Approfitto invece per una proposta operativa molto concreta, che consegue a quell’idea iniziale della “città per vecchi”.
Vorrei proporre cioè l’istituzione di un nuovo assessorato, un assessorato all’urbanistica minima (troppa enfasi nell’urbanistica interstiziale). Ovviamente mi candiderei alla direzione, giurando che non vorrei occuparmi di ferrovie o cose e spazi del genere. Vorrei invece camminare, ascoltare pensionati, impiegati, bambini commercianti, bottegai, artigiani e immaginare di ridisegnare piazze e piazzette, strade, parcheggi, incroci, giardini secondo le considerazioni che risulteranno da tanta esperienza, magari suscitando qualche forma di partecipazione attiva.
Mi viene da pensare agli “scioperi alla rovescia”, praticati da Danilo Dolci in Sicilia (con la collaborazione degli istituti competenti del Politecnico). Faccio un esempio e una prova: scegliete una aiuola qualsiasi nei pressi di fermate del tram e MM, considerate i percorsi ben determinati dai marciapiedi, inevitabilmente scoprirete sentieri tracciati dall’uso costante dei viaggiatori, calpestando il praticello, sentieri terrosi e spesso fangosi, però diretti, logici, comodi.
Come succede in montagna: ogni traccia, che abbia scavato un montanaro o abbiano disegnato una capra o un cervo, è un miracolo di ingegneria viabilistica. In omaggio al buon senso o al senso pratico e all’esperienza, come dovrebbe valere. Oso citare il motto di uno dei protagonisti dell’architettura contemporanea: dal cucchiaio alla città. Dall’aiuola per conquistare gli scali ferroviari. Chissà che non sia un buon metodo…
Oreste Pivetta
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