19 marzo 2020
TUTTI PAZZI PER I GRATTACIELI “PAZZI”
Conseguenze nefaste del rito milanese: e ora?
19 marzo 2020
Conseguenze nefaste del rito milanese: e ora?
Eravamo all’inizio del ventunesimo secolo quando Vezio De Lucia attribuì all’urbanistica milanese il titolo quasi religioso di Rito Ambrosiano. Voleva dire la maniera di procedere rapidamente a straordinari interventi avulsi dalla pianificazione istituzionale, progetti di vasta portata nulla c’entranti con le previsioni del piano regolatore o quantomeno con un modello urbano, un’idea di città, ritenuto necessario per la vitalità degli abitanti, le loro abitazioni, il loro lavoro, la loro acculturazione.
Le operazioni urbanistiche consistevano in una specie di piano particolareggiato illegale, non rientrante nemmeno nel quadro delle più vaghe intenzioni bensì concertato fra il Comune, i proprietari del suolo e i padroni di aziende, base la tabula rasa degli ingombri edilizi (industrie storiche o qualsiasi altra destinazione). Insomma, un imbroglio non troppo illuminato dalla luce del sole, vantante la capacità di veloce realizzazione dei progetti a fronte della tradizionale lentezza e incertezza degli interventi rispettosi delle procedure e degli atti esecutivi.
Da quel momento, valse l’accelerazione quadratica verso la nuova urbanistica, quella falsa della negoziazione, contro cui ci siamo battuti insieme a Edoardo Salzano, specie quando lo stesso Istituto nazionale di urbanistica (Inu), a un certo momento diretto da quell’Avarello campione del negazionismo, superò i confini del neoliberismo per approdare al privatismo più smaccato, forse compromissorio di rapporti peggio che privati, magari mafiosi.
A Milano nel corso degli anni fu un susseguirsi di poteri delegati ai signori della rendita fondiaria e del mercato edilizio. La città, una volta emergente per diverse ricchezze – settori produttivi diversificati, intreccio fra produzione, finanza, commercio tradizionale, classi sociali anche antagoniste ma comunque necessitanti di un buon funzionamento della città (case, uffici, trasporti, cultura, benessere collettivo…) -, si è ritorta in una sorta di monocoltura: finanza senza retroterra di produzione industriale, scambio in scuro (procura: mafia e ‘ndrangheta detengono il 25% del commercio), soprattutto costruzioni a più non posso, civili e incivili; un grande mercato immobiliare (naturalmente sordo alla domanda di case popolari) mobilitante capitali giganteschi benché basati sul debito. Così, la pianificazione già moribonda tirava le cuoia mentre il rito di buona memoria è vivo e continuamente applicato.
Sono già avviate le nuove costruzioni su oltre tre milioni di metri quadrati previste da una ricerca di Barbacetto e Maroni pubblicata dal Fatto Quotidiano nel 2018. È coinvolto un complesso di aree senza coordinamento, senza un progetto unitario pubblico, d’altronde impossibile stante l’involuzione anzi il reazionarismo degli amministratori comunali, da anni piegati, come fossero i corpi chini di vassalli omaggianti il principe, verso i padroni del territorio il cui dominio può manifestarsi attraverso costruzioni senza limiti delle cubature, anche restassero prive di funzioni utili. “Arriveranno 13 miliardi di investimenti immobiliari nei prossimi dieci anni”, ha dichiarato a fine 2019 il sindaco Beppe Sala.
In questo panorama di generale privatizzazione della città, sembra esserci un pensiero unico, per così dire tipologico, gravante come una cappa di smog mefitico sulla testa di pochi dissidenti: quello di rimpinzare in ogni modo Milano di grattacieli, quanto più insensati per ragione, utilità e bellezza meglio sarà; per sancire la fine dell’umanesimo urbano, contrassegno della città ancora entro il secolo breve, unico ostacolo al compimento del modello “città degli affari”.
Lodovico Meneghetti
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