31 gennaio 2020

AMARCORD DAVOS

I ricchi parlano di tutto, salvo povertà e disuguaglianze e giustizia


I ricchi di tutto il mondo si trovano a Davos sostanzialmente per decidere come restare tali. I nostri ministri corrono a dire che siamo un Paese affidabile, che investano da noi che mai metteremo in discussione il loro modo di arricchirsi. Ma c'è investimento e investimento e spesso queste operazioni diventano perdite di sovranità o colonizzazione economica.

ECONOMIC FORUM DAVOS 2020

A Davos c’era anche il clima, area d’affari e leva d’una nuova età industriale, che giustamente l’UE ha fatto propria, migliore risposta strategica ai dazi di Trump su prodotti ‘storici’. Assente invece la giustizia, la lotta contro l’ineguaglianza e la povertà spesso estrema di gran parte dell’umanità: emarginata, schiavizzata, assassinata, deportata, imprigionata. Va da sé, data la genesi dei potenti d’oggi:

In termini politici il mantra neoliberale era piuttosto semplice, consistente in tre fondamentali e universalmente attuabili obiettivi politici – privatizzare i settori economici più importanti (ad es. trasporti, miniere, telecomunicazioni, manifatture, salute, educazione) e le società pubbliche, deregolamentare il sistema economico e le sue istituzioni-chiave (ad es. banche, relazioni industriali, mercati azionari) e in generale allineare leggi e attitudini al capitalismo di libero mercato a ogni livello sociale” (Stephen J. Rosow e Jim George, Globalization & Democracy, 2015).

Di fatto, va precisato che la prima applicazione dei principi neoliberali fu in Cile nel 1973, quando la CIA aiutò il colpo di stato contro il presidente democraticamente eletto (Allende) di un generale di destra (Pinochet) considerato giustamente molto più riconducibile alle dottrine neo-liberali di Friedman e della scuola di Chicago. L’antidemocratico lato oscuro del neoliberismo fu evidente ovunque in America Latina, in particolare nei regimi brutali di Brasile e Argentina” (ibidem, p. 36).

Negli anni 1980, tuttavia, l’ondata neoliberale fu più evidente al centro dell’anglosfera – UK di Margareth Thatcher (1979-1990) e USA di Ronald Reagan (1980-1988). Essa determinò l’agenda analitica e politica anche in Australia, Nuova Zelanda e Canada. E negli anni 1980 il neoliberismo divenne egemonico nelle maggiori istituzioni dell’economia politica globale […] il Washington Consensus rimane emanazione di FMI, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro US, tutti a Washington” (ibidem, p. 37).

Una più precisa comprensione dei vincitori nel contesto neoliberale si concentra su un’élite transnazionale o globale che nei suoi vari spazi e luoghi è capace di trarre vantaggio dalle condizioni sociali e politiche intrinseche alla democrazia neoliberale […], utile agli ideologi USA che invocano il ‘destino manifesto’, pietra angolare della leadership globale americana, ma anche a ognuno dei numerosi regimi in Medio Oriente, Asia, Africa e Europa Orientale, che possono facilmente manipolare con successo le promesse del libero mercato neoliberale a proprio (antidemocratico) vantaggio” (ibidem, p. 42).

Sempre più stati democratici sono ridotti a enti “in cui di fatto governa un piccolo gruppo mentre la partecipazione di massa al processo decisionale è confinata alla scelta della leadership in elezioni gestite da élite in competizione. In questo senso, è il governo d’una élite con caratteri ‘democratici’ in cui la partecipazione democratica si limita al processo elettorale e al semplice atto di scegliere tra élite ogni 5 anni. Più significativamente la concezione democratica neoliberale ignora l’uguaglianza economica come elemento integrante della democrazia […]: “non c’è contraddizione tra un processo democratico e un ordine sociale costellato di drastiche ineguaglianze sociali”, mentre “la monopolizzazione di ricchezza e potere da parte di una minoranza è di fatto conforme alla democrazia – finché esistono ‘elezioni libere e eque’” (ibidem, pp. 43-4).

L’ineguaglianza è lasciata al volontariato: paradosso di un capitale privato che si fa Stato avocando a sé lo sviluppo e lascia l’eguaglianza alle cure del volontariato, a sua volta lasciato a se stesso.

In questa caligine di significati e valori rovesciati nel loro opposto, nelle comunità locali sono sempre più numerosi poveri e emarginati, troppi per finire in campi di concentramento, riservati per ora agli esclusi tra gli esclusi. Come gli Stati, le comunità locali sono prede ambite, ma il mantra neoliberale col denaro come sola strategia non può usare la rete per conquistarvi il potere seminando odio e caos, efficaci negli Stati per portare il ‘popolo’ al potere, come si vuole fare anche da noi, ma letali per la partecipazione civica.

Ricevendo il Sidney Peace Prize nel 1999, Desmond Tutu disse che “noi diventiamo esseri umani nella nostra relazione con gli altri; non possiamo diventare umani da soli”, tanto meno oggi nella rete digitale in cui odio e caos sono divulgati come politica e business. Come sempre però, nella politica reale l’ultima parola è dei cittadini col solo strumento efficace, la democrazia politica formata nelle elezioni, ma giustificata nei risultati di pace, partecipazione e condivisione, non di odio, esclusione e ineguaglianza.

Come dice il vecchietto in Amarcord, “mio nono faseva i matoni, mio pare faseva i matoni, faso i matoni anca me, ma la casa mia indov’è?”. Mezzi nuovi, storia vecchia. “Cinque anni fa Anne Case e Angus Deaton della Princeton University presentarono al mondo il fenomeno dei “morti di disperazione”. Una parte crescente di americani bianchi di mezza età, specie non laureati, muoiono per suicidio, droga, alcool. All’inizio sembrava dovuto alla crisi finanziaria. Invece la mortalità è ancora aumentata – permanente stato d’accusa alla società americana […] Benché alcune patologie sociali, il ritorno di nazionalismo e xenofobia, si siano diffuse globalmente, negli altri paesi ricchi non si riscontra una crisi come quella americana […] Non devono aver conosciuto lo stesso indebolimento delle istituzioni e del sentire collettivi” (“Mourning America”, The Economist, 11-17/01/2020, p. 64).

Specie nell’UE che guarda al futuro, la partita si gioca nelle comunità locali, meno tentate dal Mida reincarnato nella piccola minoranza globale che per soldi sfrutta e esalta un passaggio d’epoca che ha mani e piedi tecnologici, ma è senza testa, quella dei cittadini che usano tecnologia e denaro per vivere bene insieme. Milano è un buon posto per dare il meglio di sé, insieme.

Giuseppe Gario



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