10 novembre 2019

MANCHESTER – MILANO: TORNARE A CASA

Come ci si sente?


È un peccato, mi dico spesso, che in letteratura si dia tanto peso all’inizio e alla fine di qualcosa. È un peccato perché, nella “realtà”, inizi e fini sono un lusso cui pochi possono permettersi di credere. I tre anni che ho scelto, libera e (almeno legalmente) consapevole, di passare lontano dalla mia – nostra – città hanno avuto un inizio e una fine tutt’altro che letterari. Forse per questo il tentativo di trasformare in parole quello che provo a rivivere Milano come cittadina vera e propria mi è sembrato, fin dal principio, uno sforzo inutile.

tremolada

Proprio quando questa sensazione stava per farmi gettare la spugna, ecco il mio improbabile soccorso materializzarsi: Ping! Mi è arrivato un messaggio su Whatsapp. Lo apro subito, convinta che il mio smartphone stia per regalarmi una provvidenziale distrazione. Leggo e, come in un libro di Kundera, gli uccelli della coincidenza mi si posano leggeri sulle spalle: “Com’è, essere tornata a casa?”

Il messaggio è di una vecchia amica, o di una che potrei chiamare tale se avessimo avuto abbastanza tempo per diventare amiche e abbastanza anni per definirci “vecchie”. Mi domanda, con letale innocenza, di dare un senso a quel percorso “inizio-fine” che avevo appena comodamente bollato come finzione letteraria.

Vuol sapere, da giovane italiana “fuggita”, come ci si sente a tornare nel luogo da cui si stava scappando. Perché, mi confessa, a tornare a casa ci sta pensando anche lei. E tornare sembra, a primo impatto, una resa.

A 18 anni, mentre cercavamo di far pace tra un’intima sensazione di crescente maturità e un sistema culturale e scolastico che si basa sull’assioma “giovane=bambino”, abbiamo trovato una meravigliosa scappatoia: l’estero! Ce ne siamo andate, io, lei e decine di migliaia di altre ragazze e ragazzi, verso quel mitico “fuori” che doveva salvarci dal restar “dentro” per tutta la vita: “dentro” Milano, “dentro” l’Italia, “dentro” la casa familiare, “dentro” una forma mentis che ci stava troppo stretta.

Potrei star qui a raccontarvi com’è nata dentro di me l’esigenza di tornare “dentro”, illudendomi che a qualcuno interessi come ho passato i miei circa 1000 giorni al di là della Manica. Ma stiamo parlando di inizi e di fini; dunque, saltiamo direttamente al termine della mia avventura “fuori” di qui.

Mi sono arresa? Tutt’altro. Tornare è stato parecchio più coraggioso che andarsene, per quanto mi riguarda. Questo a causa di due dinamiche che possiamo chiamare “dentro” e “fuori” che, se rimangono separate durante il periodo passato lontano, vanno invece riconciliate quando si torna “a casa”.

“Dentro”, in una città come la nostra, significa dentro a un gruppo di persone, un circolo di amicizie, perfino dentro una classe sociale, se la intendiamo in un certo modo. “Dentro” rimanda anche al fatto che questi agglomerati umani sono chiusi: ci si nasce, ci si cresce, se si è fortunati magari ci si può entrare anche da adulti. Rimangono però ben delimitati da norme sociali che tutti conosciamo. “Fuori”, nel mio immaginario, è ben più del suo contrario: è il vedere queste realtà da un contesto in cui non hanno significato. Come temporanee cittadine della Manchester degli studenti universitari (non dubito ne esista un’altra, quella dei Mancuniani, assai più simile alla mia Milano), abbiamo vissuto sulla nostra pelle cosa accade in termini di “apertura” se gli interlocutori lasciano a casa (in quel famoso “dentro”) il loro background sociale.

Se portare un po’ di quella consapevolezza “dentro” la città che mi ha cresciuto era uno dei motivi del mio ritorno, la messa in pratica è stata più dolorosa del previsto: non ci si sente molto bene a tornare a casa, mia cara interlocutrice telematica, se decidi a priori che la casa va rifatta da capo.

È qui che la seconda motivazione, quella che viene da “fuori”, mi salva. La mia città, la città di chi torna, non è la stessa che abbiamo lasciato: è cambiata almeno quanto noi, e si vede! Come non ci accorgiamo dei piccoli cambiamenti nel viso o nel corpo di un amico che vediamo ogni giorno, così, restando nello stesso luogo, finiamo per darne per scontati sia i pregi che i difetti. La distanza che abbiamo messo tra noi e la nostra città ci porta a vederla da “fuori”, come un turista, con i suoi pro e i suoi contro ma senza preconcetti.

Così ho scoperto che quell’entrare e uscire da due realtà diverse tramite il gate di un aeroporto, non è che un’illusione. Che tornare indietro, se ci si porta in valigia tutto il lavoro di contrapposizione e crescita che la scoperta di un “fuori” può generare, non è per forza una sconfitta.

Inizi e fini forse esistono davvero; ma sono solo gli scontri, esplosivi e un po’ spaventosi, di tutti i “dentro” e “fuori” che si alternano incessantemente.

Elisa Tremolada



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