27 aprile 2019

LA REPUBBLICA ITALIANA NON È (MAI STATA) FONDATA SUL LAVORO

Stato e famiglie non investono nell'istruzione


Le priorità politiche di lungo periodo di un Paese sono facili da decifrare: basta guardare alla politica fiscale e ai flussi di spesa del bilancio dello Stato. Quei flussi ci dicono, con una evidenza quasi estrema, che la Repubblica italiana non è fondata sul lavoro. Per quanto riguarda la politica fiscale, la penalizzazione del lavoro è un argomento noto. Per questo, pur essendo un tema che ha una grande rilevanza macro-economica, dedico ad esso solo uno scarno riassunto.

Da sempre, la politica fiscale italiana tassa pochissimo le rendite, poco il capitale, parecchio i consumi, e tantissimo il lavoro, soprattutto il lavoro dipendente. E’ vero che parte delle trattenute riguardano reddito differito e prestazioni sanitarie o assistenziali. Ma questo non cambia il ragionamento. Su nessuna di quelle trattenute il lavoratore può contare: scelte politiche (fatte da altri cioè) decidono il suo livello di pensione, a prescindere dai contributi versati. E altri godono degli stessi trattamenti sanitari ed assistenziali anche se non sono lavoratori dipendenti.

Lizzeri

Tanto al kilo il prelievo fiscale e parafiscale sul costo del lavoro è pari a circa il 50% (ancor più elevato se il lavoratore dipendente è un quadro o un dirigente). In più il lavoratore ovviamente paga l’IVA sui suoi consumi, le accise sulla benzina, tutte le imposte che gravano sulle bollette elettriche e del gas, le imposte regionali e comunali ecc.. Il reddito da lavoro dipendente, alla fine, è gravato complessivamente dal prelievo fiscale per un importo che sta intorno al 60/65 per cento.

Se si vuol arrivare a una qualche parità con il prelievo fiscale medio del nostro Paese, occorre spostare sulla fiscalità generale circa 10/15 punti percentuali dell’attuale imposizione sul reddito da lavoro. Occorrerebbe spostare ben di più se si volesse dare al lavoro quella priorità di cui parla l’articolo 1 della nostra Costituzione. Se il lavoro costasse meno (e quindi fosse più conveniente per le imprese assumere lavoratori) ci sarebbe più occupazione, oppure chi lavora guadagnerebbe di più. Oppure, e più probabilmente, si verificherebbe un mix di entrambe le cose. Il tutto non sarebbe un regalo: sarebbe l’abolizione del furto fiscale che da decenni si opera in Italia nei confronti del lavoro, il cosiddetto fattore fondativo della nostra Repubblica. E sarebbe uno stimolo rilevante per ritornare, dopo due decenni sprecati, su un sentiero di crescita economica.

Ma veniamo alla politica della spesa. Se la Repubblica italiana fosse fondata sul lavoro, la spesa pubblica dovrebbe privilegiare gli interventi necessari per ottenere una piena valorizzazione del lavoro. Parliamo soprattutto di scuola e di formazione: dal nido fino ai dottorati di ricerca.

La scuola deve per prima cosa fornire ai giovani le chiavi culturali indispensabili per gestire al meglio la propria vita e i propri rapporti sociali. Ma già dalle elementari la scuola deve anche (e successivamente soprattutto) formare i giovani per il loro futuro lavoro. Adesso più di ieri. Visto che il lavoro è diventato un insieme spesso eterogeneo di lavori, le chiavi formative debbono essere più elastiche e più lungimiranti rispetto a ieri.

Terreno complesso questo, sul quale giustamente esistono ed esisteranno opinioni diverse. Ma ci sono alcuni punti fermi sui quali non è possibile discutere più di tanto se viviamo in una Repubblica fondata sul lavoro. Mi dilungo un po’ sull’argomento anche perché è mia convinzione che sia poco diffusa la percezione di quanto siamo caduti in basso per quanto riguarda scuola e formazione per il lavoro. L’Italia sta diventando fanalino di coda non solo rispetto ad altri Paesi sviluppati, ma anche rispetto a molti Paesi meno sviluppati o in via di sviluppo.

Vi è un problema di risorse innanzitutto. Se si considera la graduatoria dell’incidenza della spesa per istruzione sul PIL, l’Italia arriva terzultima tra i 28 Paesi dell’Unione Europea. Ci superano alla grande anche tutti i Paesi dell’ex Europa dell’Est. Per allinearci alla media europea dovremmo investire in scuola e formazione 10 miliardi in più l’anno. Parecchi di più, se volessimo anche recuperare il ritardo accumulato negli ultimi decenni. Ma non si tratta solo di spendere di più. I flussi di spesa vanno profondamente rivisti.

  1. Tutti gli studenti italiani dovrebbero terminare la scuola dell’obbligo in grado di comprendere e parlare correttamente l’inglese. Se sanno l’inglese il loro futuro lavorativo è molto più garantito, in Italia e fuori Italia.

  2. Tutti i curricula di studi, già a partire dalle elementari, vanno rivisti aumentando di molto l’importanza della conoscenze di matematica e di informatica. L’inglese, la matematica e l’informatica sono i tre strumenti di base per affrontare i tanti mestieri e tanti lavori del futuro.

  3. Occorre mettere in piedi un sistema premiale che concentri le risorse sulle università che riescono a scalare velocemente la graduatoria mondiale. E’ penoso verificare che, fatte salve tre piccole eccezioni (Bocconi, qualcosa del Politecnico di Milano e della Normale di Pisa) troviamo le “migliori” università italiane raggruppate intorno ai posti che vanno dal 200° al 500° nelle graduatorie di merito a livello mondiale. Le altre nostre università (cioè la maggioranza) si piazzano più in basso ancora, nella coda della vergogna di quella classifica.

  4. Occorre negare risorse alle facoltà universitarie ed alle scuole professionali che sfornano disoccupati. Facciamo un esempio per tutti. Il numero attuale di studenti nelle facoltà italiane di giurisprudenza, lettere e lingue lascia presumere che una buona metà sta sprecando il proprio tempo e finirà per ingrossare la fila già lunga di disoccupati strutturali. Se la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro diventa obbligatorio introdurre il numero chiuso per queste facoltà.

  5. Occorre cambiare il mix dei laureati ma occorre anche fare in modo che il numero dei nuovi laureati in Italia si porti al livello non diciamo della Svizzera o del Regno Unito, ma almeno al livello già raggiunto da Polonia, Slovacchia, Slovenia e dalle tre repubbliche baltiche. Per raggiungere questo obiettivo minimo l’incremento del numero di laureati dovrebbe essere almeno del 30 per cento circa (per passare grosso modo da un laureato ogni 4 giovani a un laureato ogni tre).

  6. Quanto detto per l’università vale, e in misura anche maggiore per il filone della formazione professionale. Con un grande vantaggio. Per riuscirci basterebbe avere l’umiltà e l’intelligenza di importare dalla Svizzera o dalla Germania quelle che sono probabilmente le migliori esperienze oggi esistenti al mondo nel campo della formazione professionale.

Se la scuola pubblica non è adeguata, come ad esempio in India e in Cina spesso succede, il genitore indiano o cinese risparmia anche sul cibo pur di fare studiare i figli in una buona scuola privata. Mentre in India e in Cina le scuole private sono spesso di ottimo livello, in Italia manca quasi sempre anche questa alternativa.

Delle cinque università private che hanno qualche rilievo, una sola, la Bocconi (meglio, la Business School della Bocconi), ha raggiunto la parte alta della graduatoria internazionale. Non così l’Università Cattolica, non la Luiss, non lo IULM, non la LIUC. Esistono maggiori eccezioni positive tra le scuole superiori private (cattoliche di solito). Vedi a Milano le scuole superiori della Fondazione Sacro Cuore di Lambrate e le scuole della Fondazione Grossman al Lorenteggio. Ma si tratta comunque di pochi casi. In genere le scuole private (cattoliche e non) appaiono nella parte bassa della graduatoria stilata dalla Fondazione Agnelli, l’unico studio serio e sistematico sulla qualità dell’insegnamento in tutte le scuole superiori italiane. Nella parte bassa della graduatoria si collocano, tra l’altro, anche il Leone XIII e il San Carlo, le due scuole private più amate dalle famiglie della borghesia milanese.

Parliamo ora per ultimo proprio dell’attenzione che la famiglia italiana dedica alla scuola. In moltissimi Paesi le nuove generazioni studiano in maniera sempre più sostenuta, a volte in modo addirittura eccessivo. E le famiglie fanno di tutto perché ciò avvenga. Fatte salve non poche lodevoli eccezioni, assicurarsi che i propri figli ricevano una formazione adeguata non fa invece parte delle priorità della famiglia italiana.

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Per la sanità la famiglia, se appena può, supplisce alle carenze del sistema sanitario nazionale. Lo stesso avviene per l’assistenza agli anziani, sempre se la famiglia appena può. Non così per la scuola. Può esistere un problema di risorse, ma basta guardare ad alcune macro cifre per capire che molto spesso questo problema non esiste proprio. Se si deduce quanto le famiglie vincono da quanto le famiglie spendono per giochi e scommesse (sole modalità ufficiali), otteniamo una perdita annua per le famiglie italiane pari a 18 miliardi di euro. Mentre le scuole e le università italiane si collocano quasi solo nella parte bassa delle graduatorie mondiali, l’Italia si posiziona addirittura quarta per valore assoluto delle perdite per gioco o scommesse.

Vengono subito gli Stati Uniti, Cina e Giappone, Paesi con una popolazione molto superiore a quella italiana. Di più. Gli italiani consumano oggi il maggior numero di sigarette pro-capite rispetto a tutti gli altri grandi Paesi Europei. E sono altri 18 miliardi di spesa annua. Perdite al gioco “ufficiale” e acquisto di sigarette gravano quindi per 36 miliardi sul bilancio delle famiglie. Se si aggiungono le perdite realizzate su tutte le scommesse e i giochi illegali si arriva vicino a 50 miliardi. La spesa annua del Ministero della Pubblica Istruzione italiano per la scuola pubblica di ogni ordine e grado vale appunto 50 miliardi.

Come si diceva all’inizio, i flussi di spesa fanno capire quali sono le priorità reali del nostro Paese.

Giancarlo Lizzeri



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  1. Riccardo AntoniolGentile dott. Lizzeri, la ringrazio per il suo bel articolo, che ho trovato molto interessante. Io lavoro in Svizzera, pertanto vedo chiaramente le differenze con l'Italia. A proposito della Repubblica fondata sul lavoro, segnalo anche che a mio modesto parere il Reddito di Cittadinanza (o piuttosto la Rendita di Residenza, come è stata rinominata da alcuni giornalisti) risulta in contrasto con l'art. 4 della Costituzione Italiana. Concordo che sarebbe opportuno defiscalizzare il lavoro e creare anche in Italia un moderno Contributo di Disoccupazione (al pari delle altre democrazie europee) che gravi sulla fiscalità generale (quindi non a carico delle singole aziende) e per finanziare tali spese, sarebbe opportuna l'introduzione di una tassa sulla consistenza patrimoniale (beni mobili + beni immobili) al pari per esempio della Svizzera, in modo da aumentare la tassazione delle rendite. In questo modo si ridurrebbe l'incentivo all'evasione (minor guadagno per effetto della minor aliquota) e maggior rischio (variazione del patrimonio non in accordo con la variazione del reddito). Grazie ancora per il suo contributo.
    22 maggio 2019 • 15:33Rispondi
  2. Giancarlo LizzeriConcordo. La Svizzera ha una politica del lavoro e della formazione al lavoro (a tutti i livelli) che fa venire una grande invidia.
    24 maggio 2019 • 17:31Rispondi
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