25 novembre 2018
FIN DE PARTIE, MUSICA CONTEMPORANEA SOTTO ACCUSA
L’opera rappresentata alla Scala è stata di una noia mortale. Ma Kurtág non ha colpe
25 novembre 2018
L’opera rappresentata alla Scala è stata di una noia mortale. Ma Kurtág non ha colpe
La settimana scorsa ho commentato su questa pagina, con molto sconcerto (“mi sembra di essere un marziano”), un concerto di musiche contemporanee di Milano-Musica in cui venivano presentate, fra altre, musiche pianistiche e sinfoniche di György Kurtág. Subito dopo aver scritto quelle note ho ascoltato alla radio la prima esecuzione (assoluta, mondiale) della perfino troppo celebrata opera “Fin de partie” dello stesso Kurtág e, poiché non mi aveva affatto convinto, mentre ho registrato poi diversi giudizi positivi (qualcuno addirittura entusiasta) fra coloro che l’avevano vista a teatro, sono andato alla Scala per assistere all’ultima recita.
E’ molto difficile riferire la quantità di sensazioni e di riflessioni che quelle due ore di musica e di teatro hanno provocato nella mia mente perché si sommavano, in continuazione e in palese contraddizione, momenti di attenzione e di sconforto entrambi assai significativi mentre mi ronzava in testa un vecchio motto – assai macabro – che circola nei corridoi degli ospedali: “L’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è deceduto”.
L’operazione è riuscita perfettamente perché il libretto (tratto dal capolavoro di Samuel Beckett del 1957) è interessantissimo, la scenografia è splendidamente curata da Christof Hetzer, la regìa di Pierre Audi è affascinante, e tutto – l’orchestra e il direttore (Markus Stenz), le voci e la recitazione dei quattro cantanti (Frode Olsen, Leigh Melrose, Leonardo Cortellazzi, Hilary Summers), i movimenti di scena, le luci – era perfetto e perfettamente riuscito. Peccato che la noia era mortale! Colpa della musica? Rispondere a questa domanda è il grande vero tema, che non riguarda solo “Fin de partie” e György Kurtág ma in generale gran parte della musica contemporanea, e toccare questo argomento è diventato improbo, si rischia di ripetere all’infinito parole dette e scritte da una innumerevole quantità di persone. Eppure qualche cosa ancora non si è capito se molte cose sono rimaste come prima, se si scrive musica sempre nello stesso modo e se una parte del pubblico continua ad abbandonare la sala a metà spettacolo.
La musica di Kurtág è una cosa seria, non è – come molti pensano – una presa per i fondelli; possiamo discutere quanto vogliamo sulla sua gradevolezza o sulla riuscita di taluni tentativi del compositore ungherese di definire nuovi linguaggi o una nuova sintassi. Resta il fatto che la sua musica ha sempre un senso profondo, nulla è gratuito, non cerca di essere accattivante. Ha il rigore dei suoi grandi mentori – Béla Bartók ed Anton Webern – e non indulge ad alcunché di scontato. E allora, cos’è che non va?
Vi è, non solo da parte di Kurtág ma dalla gran parte della cosiddetta avanguardia (una avanguardia permanente, come è giusto che sia, da ormai diversi decenni), la volontà e l’impegno a far sì che la musica, abbandonato il mito della bellezza e del piacere, s’industri a raccontare e rappresentare le asprezze, le contraddizioni, i tormenti, le ansie e le angosce della contemporaneità, e che debba restare rigorosamente estranea all’attesa di godimento da parte del pubblico. Finendo così per piacere solo a quel genere di ascoltatore per così dire “concettuale” che chiede alla musica di interpretare e spiegare i mali del mondo e non di costruirne e raccontarne uno diverso e desiderabile. Proibito sognare, proibito godere.
Non è un caso che Kurtág scelga di prendere come testo questa particolare opera di Beckett, monumento al pessimismo e alla disperazione, con cui l’autore irlandese grande giocatore di scacchi descrive le ultime mosse alla fine della partita (oppure, come sosteneva Theodor W. Adorno, sono gli ultimi tragici gesti dei gerarchi nazisti nel bunker di Berlino prima della capitolazione?) e guarda alla fine della esistenza umana. Non è forse il segno della dissoluzione della musica così come la intendeva Georg W. F. Hegel (coetaneo di Beethoven!) nelle sue “Lezioni di estetica” quando scrive che essa “…deve elevare l’anima al di sopra di sé stessa, deve farla librare al di sopra del suo soggetto e creare una regione dove, libera da ogni affanno, possa rifugiarsi senza ostacoli nel puro sentimento di sé stessa”?
Forse questo è il problema della musica contemporanea: accanirsi sulle tragedie dell’umana esistenza e negare pervicacemente la bellezza, la speranza e un minimo di fiducia nell’umanità. Ma perché? Forse il mondo di oggi è peggiore di quello dei due o dei tre secoli passati? Mozart alla fine del settecento aveva più ragioni di aspirare alla felicità di quante ne abbia oggi Kurtág?
Paolo Viola
2 commenti