1 novembre 2018

TRE CONCERTI “DIVERSI”

Trifonov, Caetani, Silipo


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DANIIL TRIFONOV AL “QUARTETTO”

Mi ero occupato di Daniil Trifonov (Nižnij Novgorod, 5 marzo 1991) quattro anni fa, quando il ragazzo aveva appena 23 anni e veniva presentato al Conservatorio dalle Serate Musicali con un programma composto da musiche di Skrjabin, Liszt e Chopin (i 24 preludi dell’opera 28); non era del tutto ignoto in Italia (a 16 anni vinse il Premio San Marino e nel 2010 aveva debuttato alla Società del Giardino) ma, nonostante avesse già vinto sia il premio Chopin nel 2010 che i premi Rubinstein e Čaikowskij nel 2011, il grande pubblico ancora non lo conosceva bene. Ebbe un grande successo e tuttavia, dopo averne lodato la tecnica e la precisione, su queste pagine espressi grandi dubbi sulla sua maturità di musicista.

Ricomparve l’anno scorso, nel frattempo passato alla Società del Quartetto, e la sua fama si consolidò al punto tale che per il concerto di martedì, complice anche una mezza pagina di Enrico Parola sul Corriere che raccontava il successo ottenuto due giorni prima a Lugano, non si riusciva a trovare un biglietto per entrare in Conservatorio. Questa volta il lunghissimo programma, un’ora e quaranta minuti di musica, prevedeva Beethoven (Andante “favori” WoO57 in fa maggiore e Sonata 18, opera 31 numero 3, in mi bemolle maggiore), Schumann (Bunte Blätter opera 99 e Presto Passionato opera 22a in sol minore) e Prokof’ev (Sonata n. 8 opera 84 in si bemolle maggiore).

Questa volta sono rimasto sconcertato perché Trifonov, che è anche compositore e dunque ha responsabilità maggiori del semplice esecutore, ha presentato una sorta di doppia personalità: da una parte ha confermato di possedere una tecnica straordinaria, una precisione, una cura del dettaglio e un “tocco” (è una parola che oggi non si può più dire, ma il tocco esiste sempre) da grande pianista, ma soprattutto stupisce il suono magico che riesce ad ottenere dal suo strumento. D’altra parte queste sue stesse doti, applicate ad un programma a mio giudizio non particolarmente attraente e con le modalità che ora descrivo, producono nell’ascoltatore un riflesso di noia, o forse di ipnosi, che stravolgono l’ascolto e lo portano lontano dal contesto, come in un altrove.

Si siede alla tastiera e non si ferma mai, lega non solo un movimento all’altro, togliendo quel respiro necessario per riposizionarsi nel cambio di tempo, di tonalità, di “mood”, ma lega anche un’opera all’altra: l’ha fatto con le due opere di Beethoven (che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra) e lo ha ripetuto con le due di Schumann (come se i Bunte Blätter non fossero già lunghi abbastanza ed avessero bisogno di una coda cui l’autore non avesse pensato), tanto che un’acuta amica in sala lo ha definito un “pianista bulimico”. Suona in continuazione, non smette mai, e quando arriva finalmente alla conclusione sembra un calciatore che ha appena fatto goal: schizza in piedi a raccogliere gli applausi che – come tante volte abbiamo ripetuto – dovrebbero attendere fino a che non si spegne il suono dell’ultima nota. Tutto ciò disturba non poco, ma mentre suona Beethoven raggiunge livelli di magìa inimmaginabili.

L’opera 31 numero 3 è l’ultima Sonata di Beethoven prima delle due grandi e celeberrime Waldstein (o Aurora, l’opera 53) e Appassionata (opera 57), scritta nello stesso anno del tragico “Testamento di Heiligenstadt” (1802) e così innovativa e difficile da comprendere che Chopin, clamorosamente ed incomprensibilmente, la definì “decisamente volgare”! I continui cambi di tempo (“ritardando” e “a tempo”) e le complesse armonie del primo movimento, gli “staccati” dello Scherzo, l’inedita introduzione di un Minuetto al posto di un Largo o di un Adagio, e il ritmo di Tarantella del finale (“Presto con fuoco”), sono altrettanti enigmi da decifrare e si deve riconoscere che l’esecuzione di Trifonov è stata sublime, forse una delle più belle mai ascoltate sinora; si è avuta la sensazione di uno storico passo avanti nella lettura e nella conoscenza di quest’opera. Che dire, dunque?

 

LA MESSA DA REQUIEM DI CAETANI ALL’AUDITORIUM

Altra indimenticabile serata due giorni dopo all’Auditorium dove Oleg Caetani ha diretto l’Orchestra e il Coro de laVerdi in una Messa da Requiem verdiana profondamente innovata rispetto alle esecuzioni che da anni siamo abituati ad ascoltare.

E’ noto che il Requiem di Verdi viene spesso “accusato” – ancorché, a mio modo di vedere, a torto – di essere eccessivamente teatrale o melodrammatico in quanto si vuole ch’esso debba necessariamente appartenere al genere “musica sacra”; accusa tanto insidiosa che molti direttori, anche i più grandi, tendono ad addolcirlo, ammorbidirlo, a sdrammatizzarlo e dargli un improprio carattere di intimità e di religiosità. Persino l’incipit del “Dies irae” viene spesso attutito per fargli perdere la violenza e la diabolica forza che intimorisce gli ascoltatori.

Oleg Caetani è come se avesse restituito a Verdi il diritto di scrivere un Requiem ben poco religioso ma piuttosto veemente di rabbia per la morte dell’amico Don Lisander. Credo che Caetani abbia fatto di più, che sia entrato a fondo nella biografia verdiana, rivalutando la cultura laica e l’asserito ateismo del Maestro, forse anche la volontà di celebrare Alessandro Manzoni più per la passione civile e per la condivisa ideologia risorgimentale che per la sua nota religiosità.

Tenendosi lontano ed equidistante sia dalla musica sacra che dall’opera lirica, il direttore italo-russo che celebrava l’altra sera il ventesimo anno di collaborazione con l’Orchestra milanese, ha dato del Requiem una versione aspra, fortemente incisiva ma non drammatica, ponendo in evidenza tutte le asperità della partitura senza velarne gli aspetti più ispidi. Ha ridato al Lacrymosa, che si è soliti interpretare come preghiera angelica e dolente, tutta la dignità di pianto “virile” per la morte del grande intellettuale e dell’illustre cittadino.

Ho persino avuto la sensazione, durante l’ascolto, che tutto sia stato riportato a una dimensione molto milanese o lombarda, scevra di sentimentalismi esibiti ma forte di sentimenti profondi. Per altri versi la definirei una esecuzione “barbarica”, nel più nobile significato del termine, da contrapporre a una interpretazione ecclesiale se non addirittura curiale.

Bravo Caetani, dunque, e bravissimi sia il Coro, come sempre preparato dall’inappuntabile Erina Gambarini, sia l’Orchestra che ne hanno tradotto con entusiasmo le intenzioni. Una parola a parte meritano i quattro solisti. Debole il tenore (ma è un mestiere che pare stia proprio scomparendo!), l’umbro Edoardo Milletti, e forse un po’ sopra le righe, con la sua potentissima e bellissima voce, il soprano cinese Erica Wen Meng Gu; ottimi da ogni punto di vista, e perfettamente allineati al direttore, il basso georgiano George Andguladze e soprattutto lo splendido mezzosoprano russo Yulia Mennibaeva, vera protagonista di questa edizione della Messa da Requiem.

Poiché la programmazione dell’Auditorium prevede l’esecuzione di quest’opera tutti gli anni in occasione del 2 novembre, affidandola di volta in volta a direttori diversi e non necessariamente al direttore stabile, c’è da augurarsi che Caetani torni presto e che ce la riproponga così come l’abbiamo appena ascoltata.

 

L’HISTOIRE DE BABAR DI SILIPO

Ho avuto la ventura di assistere qualche giorno fa alla prima mondiale, a Roma, dell’opera “Histoire di Babar” del compositore Luca Silipo, un economista cinquantenne che dopo aver vissuto per anni in giro per il mondo – a Milano, New York, Parigi, Hong Kong – ora vive a Berlino dove coltiva la sua grande passione per la musica classica. Ha composto molta musica da camera per diversi strumenti, in particolare per pianoforte, per eseguirli nel tempo libero con amici, come si faceva due secoli fa in casa Schubert.

L’Histoire de Babar rappresenta un salto di qualità nella sua produzione, trattandosi di un’opera complessa, per voce recitante e orchestra, che ripropone un testo poetico e fiabesco scritto negli anni trenta dal francese Jean de Brunhoff e poi musicato da Francis Poulenc per voce e pianoforte negli anni quaranta. Babar è un piccolo elefante che lascia la giungla, visita una grande città e ritorna nella giungla per portare agli altri elefanti il beneficio della civilizzazione.

Questa nuova versione ha tutt’altro peso e ben altra forza evocativa rispetto a quella di Poulenc di sessant’anni fa, grazie non solo all’eleganza ed alla modernità dei temi ma soprattutto a una orchestrazione molto accurata e sapiente. Una anteprima fu eseguita l’anno scorso ad Hong Kong da un’orchestra giovanile – nata per iniziativa dello stesso Silipo sull’onda del Sistema di Abreu – ed ebbe grandissimo successo. A Roma è stata eseguita nella bella sala del Pontificio Istituto di Musica Sacra, diretta dall’autore e realizzata da un’ottima compagine orchestrale riunita per l’occasione.

Nota: è così raro ascoltare musica contemporanea di sicura godibilità da parte del pubblico, che mi sembrerebbe un’ottima ed auspicabile iniziativa quella di realizzare a Milano, vero luogo di elezione della musica di oggi (all’Auditorium? al Conservatorio? al Dal Verme? agli Arcimboldi?), l’opera di un esordiente ma collaudato musicista che percorre l’erta via della modernità nella classicità.

 

Paolo Viola



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