10 luglio 2018

musica – BEETHOVEN VISTO DA UN INTERPRETE


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Il nome di Beethoven rappresenta e testimonia meglio di qualunque altro la presenza e la vitalità della musica europea nel mondo e ne racconta in una sola parola la forza che tuttora ci trasmette. Prima di Beethoven hanno vissuto e operato sommi musicisti, degni di rispetto e amore, ma nessuno prima di lui aveva espresso al di là della musica una personalità che si imponesse nel tempo, fino ai nostri giorni. Nessuno, includendo Mozart e Bach, Scarlatti e Haydn, ha veicolato attraverso le opere musicali un carisma così imponente. Con Beethoven la storia della musica comincia a raccontare non soltanto suoni, ma anche vite, caratteri, visioni del mondo. Beethoven è il primo artista che si impone alla società in piena autonomia di giudizio e in completa libertà creativa. A riprova di ciò, quando rinuncia a quest’ultima e scrive musica indirizzata a necessità occasionali, Beethoven conosce alcune clamorose cadute di qualità. Se ripensiamo a quanto invece i committenti siano stati decisivi per la nascita dei capolavori – la chiesa per Bach, i re, i nobili e i mecenati per Scarlatti, Haydn e Mozart – è impressionante pensare che le cime più alte della creazione beethoveniana non siano state sollecitate altro che dalla spinta interiore del musicista.

Per arrivare alle vette Beethoven è partito da un livello che poco si distingue dalla musica di media qualità del suo tempo: prudentemente la numerazione “ufficiale” delle opere esclude le sue prime composizioni per avviarsi soltanto quando i tempi diventano maturi. L’idea romantica di un genio che si manifesta sin dall’inizio è una bella illusione. Per chi nasce con un talento è inevitabile un periodo di apprendimento più o meno lungo, durante il quale i frutti prodotti sono a fatica riconducibili alla immagine che colleghiamo al musicista maturo.

Beethoven non fa eccezione alla regola e al contrario, se c’è qualcosa che ci emoziona in lui, è proprio l’impressionante distanza che esiste tra i lavori giovanili e le ultime opere. Il genio, o meglio il carisma, è sì un dono ma non può e non deve escludere un profondo lavoro di emancipazione che gradualmente definisce la personalità dell’artista. Nella seconda metà del Settecento la grammatica e la sintassi musicale sono patrimonio condiviso di una falange di musicisti, professionisti e dilettanti. La tonalità, attraverso la sincronica opera di grandi compositori, raggiunge una stabilità tale da aprire spazi immensi a disposizione della fantasia, terreno fertile per grandi imprese. Tra Salieri e Mozart la differenza non sta nel linguaggio che viene usato da entrambi bensì solo nella distanza tra l’onesto professionista e il genio.

Beethoven giunge proprio nel momento storico in cui Haydn e Mozart sono ancora nel pieno delle loro forze, con la strada della Forma Sonata solidamente tracciata, già onorata da tanti capolavori. Il carattere orgoglioso di Beethoven, la sua fierezza, non indulge in atteggiamenti proni, degni di un discepolo. Il solo fatto di trovarsi a Vienna lo pone immediatamente davanti all’inevitabile confronto. Beethoven non conosce la timidezza che comprimerà per anni il talento di Franz Schubert, un po’ troppo ossequioso verso gli ammirati maestri, e procede per la sua strada, sempre più certo di essere nel giusto, anche quando incomincia ad allontanarsi dalla tradizione. L’uomo è capace di fondare nuove strutture musicali senza tradire la forma mentis del suo tempo, ingigantendo sempre più l’edificio sonoro attraverso una rigorosa coesione. Ogni nuova Sonata per pianoforte è un passo avanti di una irresistibile progressione, dove la creazione successiva non assomiglia mai alla precedente. Oserei dire che Beethoven, più che creatore di nuove melodie, è creatore di nuove forme, nelle quali le melodie – i temi conduttori – sono sempre più connaturati alla forma. Per questo motivo è fondamentale, in occasione di esecuzioni integrali di Sonate, Quartetti, Sinfonie seguirne l’ordine cronologico.

Per questo stesso motivo è irresponsabile arrogarsi il diritto di eseguire le opere tarde di Beethoven senza aver conosciuto a fondo il percorso che lo ha condotto sino a lì. Ma va anche detto che la forma si definisce a tutto tondo con il carattere del brano. Le categorie del Settecento per le quali l’Allegro, l’Andante, l’Adagio e così via, sono codificati nel loro andamento secondo la teoria degli affetti, vengono cancellate in modo definitivo da Beethoven, nella più completa libertà espressiva di atteggiamenti e toni emotivi. Soltanto questo elemento basterebbe a dire che peso ha avuto la sua figura nella storia della musica, per cui essa si può dividere in un “prima di Beethoven” e in un “dopo Beethoven”. Una figura dunque che rivoluziona il procedere della storia della musica con un percorso solitario che per paradosso si allontana inesorabilmente dall’ambiente musicale che vive intorno a lui, e rifiuta tanto la “modernità” di Rossini trionfante a Vienna con il Tancredi quanto il romanticismo nascente di Carl Maria von Weber.

La musica di Beethoven nelle opere 109, 110 e 111 ha come carattere di fondo ciò che noi comunemente colleghiamo all’Inno alla gioia della Nona Sinfonia: in realtà, se vogliamo andare al di là di una mera lettura del testo e proviamo a farlo nostro per restituirlo vivo al pubblico, la “gioia” permea ogni situazione musicale delle ultime Sonate, anche nei movimenti vivaci, come il Prestissimo dell’op.109. Per spiegare questa mia convinzione, occorre definire meglio la parola gioia: gioia come pace duramente conquistata, gioia come inno di ringraziamento (al di là della Sinfonia Pastorale, il tema dell’Andante nell’op.109 ed il tema dell’Arietta nell’op.111), gioia come presa di coscienza della dignità umana, della condizione creaturale (troppo lungo sarebbe il discorso sulla religiosità di Beethoven).

Gioia che si manifesta in un modo inscindibile con il trionfo, il più grande della storia della musica, della tonalità. La definizione della tonalità, la sua conferma, la forma-sonata intesa proprio come gigantesca cadenza che celebra la conquista della certezza tonale, è strettamente collegata alla consapevole gioia di essere ed esistere. Anche quando la scelta della convenzione barocca spinge la musica all’espressione dolorosa, nell’Arioso dell’op.110, c’è la risposta della Fuga che dialetticamente illumina l’oscurità.

Beethoven rimane così per noi soprattutto un esempio possente della concordanza in tutte le direzioni, concordanza tra il linguaggio dei suoni e il linguaggio dell’anima, tra l’architettura della musica e il trascorrere di un dramma radicato e ancorato alla vita interiore dell’uomo, prima di tutto concordanza tra l’Io e l’umanità, fra l’anima angosciata del singolo e la comunità universale. Le parole di Schiller: “Fratelli sopra la volta delle stelle deve esserci un caro padre”, che Beethoven annunciò con chiaroveggente lucidità nel messaggio dell’ultima sinfonia, non erano in bocca sua le parole di un predicatore o, peggio, di un demagogo. È ciò che egli stesso ha vissuto, fin dal primo momento della sua attività. Ed è anche la ragione per cui noi, uomini d’oggi, ne siamo ancora toccati.

Michele Campanella*

*dalla Lectio Magistralis per la laurea h.c. in Musicologia conferitagli dall’Università Federico II° di Napoli il 24.4.2018

Rubrica a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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