5 giugno 2018

musica – UN INCONTRO SU MUSICA E TEATRO


musica21FBPochi concerti interessanti, in quest’ultima settimana, e fra questi metterei quello dedicato a Debussy, mercoledì 30 al teatro Verdi (una sala deliziosa e molto poco conosciuta nel quartiere dell’Isola), un po’ sbilanciato dalle troppe parole rispetto ai momenti musicali ma reso attraente dall’inserimento di un trittico poco noto, per violino e pianoforte, di Arthur Hartmann (Autumn in Hungary, Waltz e Kossuth Lajos). Debussy è stato penalizzato dall’aver accostato pezzi troppo eterogenei come due Preludi per pianoforte, composizioni varie per soprano e pianoforte, una divertente Marsigliese d’epoca per soprano, violino e pianoforte e finalmente l’ultima Sonata per violino e pianoforte. Mentre Alfonso Alberti, oltre a suonare il pianoforte, si dilungava in spiegazioni che avremmo ovviamente preferito leggere nel programma di sala, il violino di Giovanna Petacco e l’incantevole voce di Lorna Ruth Windsor (una voce che spazia con ammirevole disinvoltura dal settecento dell’opera buffa al novecento di Debussy) rischiaravano felicemente la serata.

Il giorno dopo all’Auditorium di largo Mahler l’orchestra Verdi – diretta da Jader Bignamini e con la partecipazione del pianista Roberto Cominati – si è dedicata alla musica di George Gershwin con il Concerto in fa, la Rapsodia in Blu e la suite da Porgy and Bess; il concerto è stato introdotto da una bella pagina di Leonard Bernstein – il Divertimento per orchestra – scritta per celebrare i cento anni della Boston Symphony Orchestra e composta da otto piccoli pezzi di grande piacevolezza e di leggiadra allegria. Sul Gershwin di Cominati-Bignamini esprimo qualche riserva: ho avuto l’impressione di una insufficiente intesa fra pianista e direttore, di troppo poche prove (un problema, come si sa, ormai endemico del sistema musicale mondiale) e di uno scarso feeling degli interpreti con il fascinoso autore americano. Grazie al quale, tuttavia, il successo non è mancato.

Mi preme invece riprendere un intrigante tema introdotto da Andrée Ruth Shammah nel corso del dibattito che si è svolto martedì scorso nella bellissima sala disegnata da Mario Botta per il Museo Campari a Sesto San Giovanni, organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera e dalla Galleria Campari, sul tema “Architettura, Design e Teatro”. Al dibattito – moderato da Giangiacomo Schiavi e dedicato principalmente alla rinascita e alla organizzazione spaziale del Teatro Franco Parenti – partecipava, oltre alla Shammah che di quel Teatro è la direttrice, Michele De Lucchi che di quella organizzazione è stato a più riprese l’architetto ispiratore.

Spero di non tradire il pensiero di Andrée Ruth Shammah riferendo quanto da lei sostenuto a proposito della unicità e specificità del Teatro e cioè che, a differenza di qualsiasi altra arte, uno spettacolo teatrale non può materializzarsi in nulla di trasmissibile e di ripetibile nel tempo (come accade, invece, con il libro per la letteratura, il quadro per la pittura, ma anche la scultura, il film, ecc.); il Teatro – il lavoro degli attori, dei registi, degli scenografi, ecc. – non lascia traccia di sé e finita la recita tutto svanisce o si distrugge, allo spettatore rimane solo la memoria dello spettacolo. Le repliche, dice la Shammah, sono ogni sera spettacoli nuovi perché basta un nonnulla, anche solo un colpo di tosse nel pubblico, e gli attori si trasformano, cambia il loro stato d’animo e possono perfino cambiare il carattere del loro personaggio. Inutile pensare alle registrazioni televisive o per il cinematografo: la magìa del rapporto che si crea in teatro fra attore e pubblico non può essere riprodotta e “fermata” in una immagine, è già irreparabilmente persa appena chiuso il sipario.

In Le paradoxe du comedien, Diderot assegna all’attore il ruolo di creatore e non di imitatore: “Il y a des endroits qu’il faudrait presque abandonner à l’acteur. C’est à lui à disposer de la scène écrite, à répéter certains mots, à revenir sur certaines idées, à en retrancher quelques-unes et à en rajouter d’autres. Dans les «cantabile» le musicien laisse à un grand chanteur un libre exercice de son goût et de son talent… Le poète devrait en faire autant, quand il connait bien son acteur” (il francese è un po’ arcaico ma originale). Maria Righetti, che mi ha offerto questa bella citazione, osserva il curioso e interessante parallelo che Diderot fa tra maestria dell’attore e maestria del cantante: è su di lui, sull’attore, che si basa l’atto stesso del Teatro.

Bene, ma per la musica non è la stessa cosa? Non valgono le stesse considerazioni?

A differenza dell’idea di libertà interpretativa espressa da Diderot, molti sono tentati di credere che la musica sia come scolpita nella pietra, immodificabile e sempre uguale a sé stessa, che l’interprete altro non sia che il suo fedele e scrupoloso esecutore. (D’altronde a chi non è capitato di avere in mente una certa esecuzione e di considerare bravo chi vi si attiene e diffidare di una diversa “interpretazione”?). Qualcuno, anche fra i grandi musicisti, si azzarda a dire che la musica non deve essere “interpretata” ma solo “correttamente eseguita”; un modo per dire che la musica va letta ed eseguita con rigoroso scrupolo filologico ed adeguata perizia tecnica senza aggiungervi alcunché di personale. L’interpretazione, dunque, non sarebbe altro che l’esito di una corretta esecuzione.

Nonostante siano stati scritti quintali di libri e sprecate infinite parole, sul concetto di interpretazione musicale credo regni ancora molta confusione. Tuttavia, tornando alla differenza fra teatro e musica, mi sembra difficile credere che un concerto o un’opera lirica abbia una riproducibilità o una trasmissibilità maggiore di quanta ne possa avere una commedia o una tragedia. Neanche se si volesse credere che la scrittura musicale abbia lo stesso grado di precisione e di incontrovertibilità di cui gode la scrittura tout court.

 

Rubrica a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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