3 aprile 2018

musica – IL LISZT DI VSEVOLOD DVORKIN


musica_13So di addentrarmi temerariamente in un campo minato, ma la tentazione di dire finalmente ciò che penso del grande Maestro è troppo forte e non riesco a sottrarmici. Susciterò le ire di molti lettori suoi estimatori, lo so, ma devo ciononostante provare a spiegarmi. Parlo del principe dei pianisti, di chi per più di mezzo secolo è stato l’idolo delle folle europee, del grande amico di Frédéric Chopin e di Robert Schumann che ha conosciuto tutti i grandi musicisti dell’800, del suocero di Richard Wagner, di colui che ha scritto tanta di quella musica per pianoforte da riempirne quasi cento CD; lo avete capito tutti, vorrei parlare del grandissimo Franz Liszt la cui musica, devo confessare, ovviamente con qualche eccezione, non mi è mai piaciuta.

L’altra sera alla Palazzina Liberty, era venerdì di Pasqua, ho ascoltato un concerto totalmente dedicato alla musica cosiddetta “sacra” di Liszt (ma Campanella dice giustamente che non esiste la “musica sacra” perché la musica è tutta intrinsecamente sacra!) di cui un magnifico pianista e grande docente russo – Vsevolod Dvorkin – ha eseguito dapprima la “Via Crucis” nella trascrizione per pianoforte solo (dall’originale per mezzosoprano, baritono, coro ed organo o pianoforte) dello stesso Liszt e poi due leggende, relative a due omonimi santi, “S. Francesco d’Assisi predica agli uccelli” e “S. Francesco di Paola cammina sulle onde”.

Si dirà che non eravamo dinanzi alle opere migliori di Liszt, e in particolare che quella “Via Crucis” senza coro e senza voci soliste ha ben poco sapore e ancor meno spessore, ma l’occasione è stata preziosa per capire una cosa: che Liszt, proprio perché è stato un grande pianista, piace moltissimo ai pianisti, molto meno agli ascoltatori. In altre parole il piacere di suonarlo, di immedesimarsi in lui e di imitarne l’abilità tecnica, di scoprire le invenzioni con le quali riesce ad espandere le capacità espressive dello strumento, la soddisfazione di seguire le raffinate diavolerie della diteggiatura necessaria a destreggiarsi in quel mare di note, tutto questo diventa l’essenza dell’opera e travolge – e travalica – il contenuto e il significato più profondo della musica. I pianisti lo sanno benissimo e godono ad eseguirlo sia per l’intimo piacere di riconoscere tutta quell’abilità nelle proprie mani, sia per dare al pubblico l’emozione – non necessariamente intrinseca alla musica – della bellezza formale dell’esecuzione.

Non è un caso che Liszt più di altri musicisti abbia scritto molta musica cosiddetta “a programma”, descrivendo con le note fatti precisi, e che le sue fonti di ispirazione siano spesso estranee alla logica propria della musica. Il concerto del venerdì santo lo ha dimostrato in modo esasperato quando il pianoforte ha replicato i colpi del martello sui chiodi con cui viene crocefisso il Cristo, o quando ha imitato il canto degli uccelli (che rispondevano alla predica del Francesco di Assisi) o il flusso delle onde (sulle quali camminava l’altro Francesco). Pura tecnica, priva di poesia, Pascal avrebbe detto esprit de géométrie anziché esprit de finesse. Che poi una parte del pubblico resti incantato da queste “maraviglie” non dubito; specialmente quando, come nella leggenda del cammino sulle onde, viene colpito dalla inverosimile quantità di note che si accavallano e si abbattono sulla platea. Ma dubito molto che a proposito di queste opere si possa parlare di “grande musica” o di “musica forte” come giustamente propone di chiamarla Quirino Principe.

Nel volume “Il mio Liszt” di Michele Campanella, l’indiscusso specialista lisztiano, la figura dell’ungherese è disegnata sì come quella di un compositore, ma ciò che emerge a tutto tondo è piuttosto il grande amore del pianista Campanella nei confronti del pianista Liszt. Emerge anche, o soprattutto, la figura dell’uomo generoso, dalla vita molto inquieta – fra amori, concerti e mondanità – con quel finale mistico-religioso che a mio modesto modo di vedere non è del tutto convincente. Ma bastano una grande professionalità e una grande biografia a fare un grande compositore?

Vsevolod Dvorkin – che a dispetto della sua nascita ed educazione moscovita è da tempo ed a tutti gli effetti un italiano – vive ed insegna a Como ed ha allievi che gli arrivano da tutte le parti del mondo che lo chiamano familiarmente Sheva. Venerdì quei ragazzi hanno riempito la palazzina “Dario Fo e Franca Rame” e Sheva ha fatto tutto il possibile e l’impossibile per dare un’anima a una musica che di anima ne aveva assai poca; è uno straordinario maestro, di quelli con la M maiuscola, che spiegano non solo come rispettare il testo ma soprattutto il senso e il perché di ogni nota e di ogni segno dinamico. Insegna non solo musica ma anche tanta filosofia ed umanità.

 

Paolo Viola

 

Questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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