19 luglio 2017

musica – CLAUS PETER FLOR ALL’AUDITORIUM


Claus Peter Flor è il nuovo direttore musicale dell’Orchestra Verdi, atteso successore della cinese Zhang Xian che ha ricoperto quel ruolo negli ultimi otto anni; alla Verdi Flor è approdato la prima volta in una serata del 1999, per sostituire Riccardo Chailly influenzato, e da allora ha frequentato spesso il podio dell’Auditorium di largo Mahler fino a diventare nel 2003 il cosiddetto “direttore principale” dell’Orchestra; ma non vi aveva mai diretto le Sinfonie di Beethoven.

Claus Peter Flor, Berlin, 2014, copyright www.peterrigaud.comSarà questo il motivo per cui ha deciso di esordire nel suo nuovo ruolo di direttore musicale eseguendole tutte e nove in cinque serate molto ravvicinate, fra il 6 e il 19 di questo mese, e fra queste quella particolarmente significativa di giovedì 13 in cui ha eseguito la Sesta (la Pastorale) in fa maggiore op. 68 e la Settima in la maggiore op. 92.

Molti direttori si sono cimentati in queste maratone ed è rimasta scolpita nella storia della musica quella in cui Claudio Abbado, appena operato (e aggiungendovi i cinque Concerti per pianoforte e orchestra), le eseguì tutte e nove in sei indimenticabili serate – prima a Vienna nel 2000, poi a Roma nel 2001 – concentrando il tutto in un’unica settimana; ma l’Orchestra era quella dei Berliner e lui ne era direttore artistico da quasi dieci anni!

Mesi fa, quando Daniel Barenboim diresse l’integrale delle Sinfonie di Bruckner alla Carnegie Hall di New York, ho osservato quanto sia difficile realizzare queste maratone, se non altro perché tanta musica in così breve tempo significa provarla troppo poco e stressare le orchestre oltre misura.

Flor ha sessantaquattro anni e ha un percorso professionale di grande rispetto: è nato e cresciuto in quel magico mondo che – fra la Turingia e la Sassonia, da Eisenach a Weimar, da Lipsia a Dresda – per due secoli ha dominato la cultura musicale europea; ha studiato nel Conservatorio di Zwickau, città natale di Schumann, ed è rimasto nella Germania dell’Est fino al crollo del muro di Berlino che lo ha colto direttore stabile dei Berliner Symphoniker (dell’Est) i rivali, durante tutto il periodo della “guerra fredda”, dei Berliner Philharmoniker (dell’Ovest). Poi è stato direttore stabile a Zurigo, a Londra, e più recentemente a Kuala Lumpur in Malesia.

Lo abbiamo seguito non poco in questa rubrica, apprezzato e talvolta anche criticato: nel gennaio 2012 scrivevamo che nella Quinta di Bruckner aveva messo in difficoltà l’orchestra “frammentando il testo musicale e accentuandone i contrasti e le asprezze fino a restituirci sonorità e ritmi strawinskijani più che bruckneriani”, e che “forse era più adatto al romanticismo tedesco che al classicismo viennese e alla sua tarda evoluzione”. Poi ancora, nel maggio successivo ci eravamo molto compiaciuti per una raffinata interpretazione della Sinfonia da Requiem di Britten, ma non per la ruvida lettura della Nona Sinfonia di Bruckner; ci era sembrato “alla ricerca di un bandolo che non riusciva a trovare, con una orchestra conseguentemente meno disciplinata … idealmente distante dall’autore austriaco e come inadatto a restituircene la poetica” … “che mettesse in evidenza, forzandoli, i chiaroscuri e le asperità eludendo il lirismo di cui la Nona è intessuta”.

Avevamo però apprezzato nel giugno dell’anno scorso, lo Stabat Mater di Dvořák (Praga è molto vicina a Dresda!) e nel successivo luglio anche due importanti opere di Berlioz (che invece con la Sassonia ha molto poco a che fare) come la Sinfonia Fantastica e il melodramma lirico Lélio o il ritorno alla vita.

Abbiamo dunque ritenuto che questa integrale, posta all’inizio del nuovo ciclo, dovesse essere un importante segnale indicatore della rotta che il nuovo direttore musicale intende seguire nel triennio che inizia ora; e che, come si diceva, il suo essere tedesco gli avrebbe consentito di esprimere la poetica di Beethoven meglio di come fece con quella dell’austriaco Bruckner. Purtroppo però qualcosa non ha funzionato.

La Sesta e la Settima Sinfonia, che con la Quinta rappresentano l’indiscusso apice della produzione sinfonica di Beethoven, sono state scritte da Beethoven a distanza di quattro anni una dall’altra, quattro anni di grandi capolavori fra cui l’Imperatore (l’ultimo concerto per pianoforte e orchestra), quattro Sonate per pianoforte (e fra queste Les Adieux) e un Quartetto per archi. La Sesta è stata scritta “in parallelo” con la Quinta e le due opere, benché Poggi e Vallora asseriscano che “per le analogie costruttive e per le importanti relazioni interne” esse siano molto più simili di quanto non appaia, sono abitualmente considerate tanto diverse da essere lette come rappresentazione di due opposti sentimenti: la serenità della vita di campagna da una parte, e la lotta contro le avversità e la tragicità del destino dall’altra.

Anche Settima e Sesta hanno contrasti e analogie molto significativi: basti pensare al rapporto che “La scena al ruscello” della Pastorale ha con l’Allegretto della sinfonia successiva, o al “Temporale” (Gewitter Sturm) della prima con lo Scherzo della seconda. Ascoltare le due sinfonie una dopo l’altra consente dunque di mettere a confronto aspetti fondamentali e contrastanti del carattere di Beethoven che tuttavia convergono nella costante ricerca del linguaggio appropriato per ciascuna espressione.

Le due Sinfonie eseguite giovedì scorso sono risultate piuttosto scialbe. L’orchestra sembrava frenata, opaca; trionfava inesorabilmente il metronomo mentre mancava il respiro e la visione d’insieme dell’opera. Se le frasi (i poetici temi della Sesta, e la magica cellula su cui è costruito l’Allegretto della Settima!) erano ben tornite e si percepiva la grande cura dei particolari, ciò avveniva a danno di una strategia che legasse e tenesse insieme l’intera partitura. La cosa più sorprendente della Settima di Flor è stato l’attacco dello Scherzo, senza pausa, sull’ultima nota dell’Allegretto.

Se ignorare la pausa fra lo Scherzo e il finale Allegro con brio è praticamente d’obbligo, saltare quella fra il secondo e il terzo movimento (peraltro esplicitamente indicata nella partitura) è sbagliato. Vuol dire ignorare il senso dell’Allegretto che – scritto non a caso nella morbida e languida tonalità del la minore – è una sorta di serena marcia funebre e in quanto tale rappresenta il necessario momento di meditazione e di riflessione all’interno di una Sinfonia particolarmente vorticosa: un congruo silenzio alla sua conclusione è essenziale prima di affrontare lo scoppiettante “presto” dello Scherzo.

Una cosa però non può essere taciuta. Eseguire le Sinfonie di Beethoven per la milionesima volta (forse di più), per giunta in una città come la nostra che non è certo sprovveduta, o lo si fa al massimo livello oppure non lo si deve fare. A fine stagione, nel mese più caldo dell’anno, con un rapporto non ancora stabilizzato con l’orchestra, l’integrale delle nove sinfonie in quattordici giorni non è stato un azzardo eccessivo?

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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