17 gennaio 2012

musica


INIZIO D’ANNO

Avevamo chiuso l’anno ricordando che “… al di là di ogni apparenza la musica è sempre diversa, ogni interprete la ricrea aggiungendovi volta a volta tutti i significati e i valori di cui lui e noi ascoltatori siamo portatori. Riascoltare quei capolavori vuol dire ogni volta rigenerarli e rigenerarci con essi….” e l’inizio dell’anno ci ha confermato brutalmente l’assunto con una serie di interpretazioni importanti, in sedi molto qualificate, ma ahimè non tutte propriamente “rigeneratrici” come immaginavamo scrivendo quelle parole.

Cominciamo dal Concerto di Capodanno, che il teatro della Fenice ha affidato al giovane genio venezuelano Diego Matheuz e trasmesso alle televisioni di mezzo mondo, per dire che non possiamo non plaudire all’iniziativa di affidare un concerto così “visibile” a questo ventisettenne …”uno dei frutti migliori del Sistema Nacional de Orquestas Juveniles e Infantiles” … fondato da Josè Antonio Abreu quasi quarant’anni fa e benedetto da Claudio Abbado. Forse però non era il caso di affidargli in apertura (prima delle ormai tradizionali romanze del bel canto italiano, fra cui non si è capito cosa c’entrasse il catalogo mozartiano sciorinato da Leporello) quella Quinta Sinfonia di Čajkowskij che è quanto di più lontano si possa immaginare da un giovane caraibico pieno di vita e di entusiasmo, o dalla gioia e dalla speranza che tutti vogliono provare nel celebrare l’inizio di un anno nuovo. La Quinta è una delle opere più tragiche, pessimiste, piene di pulsioni autodistruttive che siano mai state concepite da mente umana, nata in un contesto di depressione e di vocazione al suicidio da chi si autodefiniva un “artista a disagio nel mondo”. E infatti ha sofferto Matheuz e ha sofferto l’orchestra, ma sopratutto temiamo si sia risentito il povero Čajkowskij nell’ascoltare la sua drammatica “confessione sinfonica” trasformata in un improbabile inno fra il trionfale e lo scherzoso.

Non molto meglio è andata all’Auditorium di Milano con i primi concerti dell’anno, quello dell’Orchestra Barocca con l’Oratorio di Natale di Bach diretto da Ruben Jais, e quello della stagione sinfonica con un’altra poderosa Quinta – questa volta di Bruckner – diretta da Claus Peter Flor. Anche a proposito dell’Oratorio bachiano dobbiamo dire che è da apprezzare senza riserve – e lo abbiamo già detto in più occasioni – la nascita di un’orchestra barocca in un paese come il nostro che ama tradizionalmente l’opera lirica e che è arrivato con decenni di ritardo ad amare la musica sinfonica; e ancora di più apprezziamo che si consolidi anche da noi la tradizione, squisitamente tedesca e in generale mitteleuropea, di eseguire le musiche di rito nelle occasioni per cui furono scritte, come le Passioni a Pasqua e gli Oratori nelle omonime feste liturgiche. Ma non possiamo ignorare le scuole tedesche e olandesi che hanno raggiunto risultati straordinari (ricordate il ciclo integrale delle Cantate di Bach?) e – come se non esistessero – ricominciare tutto daccapo.

È vero che Bach, non potendo suo malgrado disporre di voci femminili, affidava le parti alte a controtenori e sopranisti; ma la voce del sopranista dell’altra sera (Paolo Lopez), ottima per l’opera buffa, non sembrava proprio la più adatta per la musica sacra del Kantor. E poi dividere le voci femminili da quelle maschili, mettendo le une in faccia alle altre, ha tolto la necessaria corposità al coro, così come quel poco di teatralità implicito nel dialogo fra i quattro solisti (ottimo il basso Christian Senn) viene mortificato se a ogni aria o recitativo uno esce e l’altro entra dalle quinte con un andarivieni che distrae e disturba lo spettatore. Per non dire del tormentone di intonare maniacalmente gli strumenti all’inizio di ogni parte (sono sei) dell’Oratorio. Insomma, va bene l’orchestra barocca e la grande musica sacra luterana, ma attenzione ai tanti piccoli e meno piccoli particolari che fanno la differenza e possono renderla sublime ma anche noiosa.

Due parole sulla Quinta di Bruckner. Flor è un consumato direttore d’orchestra tedesco, forse più adatto al romanticismo della sua gente che non al classicismo viennese e alla sua tarda evoluzione. È vero che quest’opera, squisitamente austriaca, nasce alla fine del secolo quando stavano già crollando molte certezze (quelle politiche e sociali dell’Impero asburgico, che si riflettevano perfettamente nelle regole della tonalità) e si sentiva l’inizio di una nuova era musicale. Ma non crediamo che si possa, come ha fatto Flor, frammentare il testo musicale e accentuarne tanto i contrasti e le asprezze fino a restituirci sonorità e ritmi strawinskiani per nulla riconducibili a Bruckner, che ci sono sembrati tradire lo spirito dell’organista e dell’uomo che ha vissuto tutta la vita nel silenzio e nella pace delle grandi cattedrali. Una lettura che – anche in questo caso – ha messo in evidente difficoltà l’orchestra e sopratutto ha lasciato molto perplesso il pubblico, generoso come sempre, ma questa volta un po’ meno prodigo del solito nel battere le mani.

Una buona notizia arriva invece dalla Scala dove, nel primo concerto di quest’anno della Filarmonica, un Daniel Harding in forma smagliante insieme al violinista Frank Peter Zimmermann ci ha offerto una indimenticabile esecuzione del Concerto per violino e orchestra in re maggiore opera 61 di Beethoven. Una interpretazione sorprendente, delicata e intimista, di una dolcezza struggente, suonata a fil di voce, quasi a volerlo contrapporre alle potenti sinfonie coeve (il Concerto è del 1806 come la Quarta, la Quinta è stata scritta poco dopo, nell’inverno 1807-1808). La lezione di Harding, tanto diversa da quella con la quale anni fa si impose all’attenzione del mondo (il famoso Don Giovanni di Aix-en-Provence), ci ha svelato il lato femminile di Beethoven – quello di Für Elise, per esempio – una dolcezza e una finezza di sentimenti che raramente traspaiono dalle sue opere, piuttosto tese a celebrare la forza del carattere umano e il dramma dell’esistenza. Dobbiamo però riscontrare che il pubblico scaligero si è spaccato a metà: da una parte gli entusiasti e i commossi, come noi, dall’altra i delusi e gli irritati, quelli che vogliono sentire “sempre la stessa musica”, esattamente quella che già conoscono. Peccato, perché ascoltando senza pregiudizi i grandi capolavori e i grandi interpreti non si finisce mai di scoprire cose nuove.

Musica per una settimana

 

 questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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