18 gennaio 2017

musica – UNO SCHIFF INUSUALE


Un curioso concerto, quello che ci ha proposto la Società del Quartetto il 10 gennaio scorso in Sala Verdi, con András Schiff impegnato in un programma inusuale e di difficile interpretazione e valutazione, eseguito con grande determinazione dal sessantaquattrenne baronetto – adorato dal pubblico milanese che da trent’anni segue i suoi recital e le sue “integrali”. Un programma diviso in due parti, dedicato al confronto di musiche molto diverse fra loro ma legate da un sottile filo capace di aiutare gli ascoltatori a scoprire il senso più profondo di ciascun pezzo.

musica02FBLa prima parte del programma alternava le quindici “Invenzioni a due voci” di Bach (tre gruppetti di cinque Invenzioni ciascuno) a sedici brevi pezzi di Béla Bartók (10 dei suoi Gyermekeknek, o pezzi “Per i bambini”, tre Rondò su melodie popolari slovacche e tre Burlesque) e in questo caso il filo conduttore fra i due autori era la didattica per l’infanzia. (Vero e non vero perché i Rondò e le Burlesque non sono nati con questa intenzione ma certe ingenuità – più apparenti che reali – dei temi prescelti e del loro trattamento potrebbe lasciarlo credere).

Ovviamente l’aspetto più intrigante del confronto fra Bach e Bartók sono i duecento anni che separano le loro composizioni, anni durante i quali si sono succeduti Mozart e Beethoven, Schumann e Chopin, Wagner e Mahler, solo per citarne qualcuno, che inutile dirlo sottolineano la distanza abissale fra i due modi di usare lo strumento e di intendere la musica, la didattica, l’idea stessa di infanzia. È parso tuttavia che nello sforzo di differenziare i due modi Schiff abbia un po’ sacrificato Bach, rendendolo più asettico e meccanico del necessario, a beneficio di una maggiore amabilità di Bartók (del quale aveva sottolineato il fatto di sentirlo l’amato connazionale).

Il secondo confronto è stato fra Leoš Janáček (“Su un sentiero di rovi”) e Robert Schumann (“Davidsbündlertänze”) – anche qui fra Europa orientale ed Europa occidentale ma questa volta con una distanza temporale di soli settant’anni – due opere composte da brevi pezzi che “raccontano” esperienze visive e quasi tattili che vagamente riportano all’adolescenza: la prima riguarda una ricerca su melodie popolari slovacche (Janáček è nato e vissuto nella vicina Moravia), mentre la seconda, con l’allusione alla lotta fra Davide e Golìa, “manifesta in maniera sublime l’ardente impeto espressivo del giovane Schumann che trasfigura il pianoforte in un teatro visionario per rappresentare in forma poetica le gioie e i tormenti della sua vita interiore” (Oreste Bossini nel programma di sala).

Un programma, come si vede, di grande impegno e considerevole levatura che lo stesso Schiff ha sentito il bisogno di illustrare e spiegare prima dell’inizio del concerto, paragonando spiritosamente la costruzione del programma musicale alla confezione del menù per un pranzo. Curiosamente Sir András ha eseguito le quindici invenzioni di Bach e i sedici pezzi di Bartók senza mai togliere le mani dal pianoforte, quasi a voler sfidare gli ascoltatori a distinguere fra loro opere e autori, in realtà svelandone le relazioni e i rinvii. Confesso di aver avuto inizialmente qualche pregiudizio negativo ma di avere poi dovuto ammirare il risultato; soprattutto si è dovuto apprezzare l’enorme sforzo di suonare ininterrottamente per un’ora di seguito e di passare continuamente da un mood all’altro senza che l’uno condizionasse l’altro.

Meno didascalica e più intensa è parsa la seconda parte del concerto in cui Schiff si è rivelato un magnifico interprete del mondo romantico, sia slavo che germanico; negli anni passati abbiamo riconosciuto in lui soprattutto l’interprete del barocco di Bach e del classicismo viennese di Beethoven e di Schubert. I dieci pezzi di Janáček e ancor più i diciotto di Schumann ci hanno invece restituito un pianista di grande affabilità e affettuosità, quasi paterno, capace di evocare sentimenti profondi e di far dimenticare gli aspetti tecnici dello strumento; non era più il pianista che alternava nello stesso concerto lo Steinway al Bösendorfer per far sentire differenze timbriche e tecniche fra una sonata e l’altra di Beethoven, ma un musicista beatamente immerso fra le note, in particolare quelle di Schumann, senza ugge e paranoie ma solo con la gioia di ascoltarle cantare.

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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