9 novembre 2016
AMERICAN PASTORAL
di Ewan Mc Gregor [Usa, 2016, 126′]
con: Ewan Mc Gregor, Jennifer Connelly, Dakota Fanning, David Trathairn
Chi ha letto il romanzo “Pastorale Americana” di Philip Roth, premio Pulitzer del 1997, può avere provato nei confronti di questo testo sentimenti contrastanti, grande passione o grande insofferenza, ma sicuramente ne conserva un ricordo nitido del personaggio protagonista, lo Svedese, nel suo immaginario di lettore.
Non facile la trasposizione cinematografica di una parabola memorabile che si snoda per diversi decenni di conquiste e conflitti sociali in America, raccontando la Storia attraverso la vicenda personale di un uomo, un ebreo americano predestinato al successo che diviene vittima impotente della disintegrazione dei suoi affetti e della sua famiglia.
Ancora meno facile trovare un interprete per il protagonista che sia all’altezza delle aspettative di un lettore medio alto, che, leggendo il romanzo, si sia già lasciato affascinare da questa figura potente nella sua fragilità.
Ewan Mc Gregor rischia due volte nel suo esordio d’autore. Rischia da regista, con la ambiziosa e caparbia volontà di raccontare, da dietro la macchina da presa, la sua interpretazione dell’American Dream per eccellenza, dopo che in tre anni nessun altro si era preso la responsabilità di dirigere il film che già lo aveva coinvolto come protagonista principale. Si prende il rischio anche come interprete, scegliendo di dare il suo corpo, la sua voce il suo grande talento d’attore, a un mitico personaggio letterario.
La storia è nota: Seymour “Swede” Levov, l’asso sportivo del college, bello, buono e vincente, ha tutte le caratteristiche per avere una vita da sogno in coppia con la sua bellissima moglie, ex Miss New Jersey. Ma qualcosa si rompe quando la figlia amatissima Merry, sposa la causa rivoluzionaria e porta la guerra in casa per poi rompere tutti i legami con la famiglia.
Il film privilegia alcuni aspetti del libro, è la storia personale a essere sempre in primo piano, soprattutto il dolore del padre e il suo spaesamento, mentre le vicende e il contesto storico dei contradditori anni ’60 americani, restano appiattiti sullo sfondo. Si entra nel romanzo fin dalla prima scena con il narratore alter ego dello scrittore, Nathan Zuckerman (cameo perfetto di David Strathairn) che rimane avvinto nella parabola discendente dello Svedese, suo mito di gioventù.
Si sviluppa poi in crescendo il triangolo padre, madre e figlia, ma se le interpretazioni magistrali di Jennifer Connelly e di Dakota Fanning danno corpo e sostanza ai personaggi femminili, non è così per lo Svedese. Non c’è in Ewan Mc Gregor quell’aura commovente e inconsapevole che in tutto il libro segna la sua storia, dalla fortuna alla disperazione.
L’autore Philip Roth ha approvato la trasposizione, lodando le interpretazioni femminili, il pubblico di lettori è invece rimasto diviso. Chi scrive resta con una delusione negli occhi, forse per troppo amore nei confronti del testo, e pur apprezzando la fedeltà al romanzo e comprendendo la difficoltà di una restituzione complessa di una narrazione così epica e densa, fatica a trovare nel film la stessa forza della scrittura.
Soprattutto non ha ritrovato nello Svedese i tratti del senso di impotenza disperata e testarda. Per un’opera prima l’indulgenza è dovuta, ma un minore rispetto nei confronti del testo e un maggiore distacco tra regista e interprete (il doppio ruolo non è da tutti), avrebbero giovato al film, che non vola. La complessità e la fama del romanzo richiedevano una maggiore esperienza e sensibilità d’autore che McGregor non ha ancora maturato.
Ma lo aspettiamo alle prossime prove, da interprete con il seguito di ‘Trainspotting’, pellicola che lo ha lanciato e da autore con un film a basso budget girato da regista nella sua Edimburgo con protagonisti adolescenti.
Adele H.
questa rubrica è a cura degli Anonimi Milanesi