12 aprile 2017

musica – I MAESTRI CANTORI DI DANIELE GATTI


Nessuno più ricorderà l’edizione del 1952 diretta da Wilhelm Furtwängler – per la prima volta cantata in tedesco! – e forse alcuni ricorderanno quella successiva, diretta da Karl Böhm nel 1962; ma molti, sicuramente, ricorderanno l’ultima edizione diretta ventisette anni fa da Wolfgang Sawallisch. È questa lunga assenza la buona ragione per cui “I Maestri Cantori di Norimberga” dei giorni scorsi alla Scala erano tanto attesi dalla comunità wagneriana di Milano, o almeno da quella parte che non si può permettere le mitiche trasferte estive a Bayreuth. L’attesa era condita da grande emozione e grandissime aspettative anche a causa del ritorno di un importante direttore italiano come Daniele Gatti, già collaudato a Bayreuth (con il Parsifal del 2008) nel repertorio wagneriano; e tuttavia la sera dell’ultima replica (la settima, di mercoledì scorso), mentre le gallerie traboccavano di appassionati, platea e palchi erano mezzi vuoti. Non ce lo si aspettava e c’è da chiedersi se la Scala non potrebbe rivedere la politica dei prezzi e magari sviluppare il last minute a beneficio degli ascoltatori più interessati.

musica14FBDico subito che lo spettacolo è stato uno dei migliori degli ultimi tempi, eccellente sia per quanto riguarda gli aspetti squisitamente musicali che per quelli più propriamente teatrali: Daniele Gatti e Bruno Casoni, ottimamente assecondati dall’orchestra e dal coro, hanno lavorato in perfetta armonia restituendo una musica mai sopra le righe, potente eppure misuratissima, dai suoni morbidi e penetranti, che non permetteva agli ascoltatori alcuna distrazione e consentiva una assoluta concentrazione (cosa peraltro assai difficile per uno spettacolo che, con gli intervalli, dura ben cinque ore e mezza). I direttori italiani che abbiano saputo penetrare così a fondo l’opera wagneriana sono stati pochissimi e possiamo ben dire che Gatti, più che mai in questa occasione, è stato una vera rivelazione e ha dimostrato di avere poco da invidiare ai colleghi tedeschi. Fascinosa e pregnante anche la regia di Harry Kupfer che – con la solare scena di Hans Schavernoch illuminata da Jürgen Hoffmann – ha disegnato uno spettacolo molto coerente al testo ma anche pieno di fantasia e di suggestioni tutt’altro che scontate. Un vero godimento degli occhi e dello spirito.

Raccontarne la trama, nell’economia di questa rubrica, è impossibile. Vale però la pena di suggerire una lettura del libretto dei Maestri Cantori (che non si capisce bene come mai in italiano abbia tradizionalmente preso il plurale quando la traduzione corretta è Il Maestro Cantore di Norimberga) con lo stesso spirito con cui si legge un romanzo; a differenza delle altre opere di Wagner, ma direi anche dell’opera in generale, il testo più che poetico o lirico è in prosa, tanto che sembra in qualche modo anticipare il verismo. Wagner racconta un evento occorso nel XVI secolo prendendo spunto dalla singolare figura di un calzolaio-poeta, tale Hans Sachs (1494-1576) realmente vissuto a Norimberga e noto per essere l’autore di oltre 5.000 (cinquemila!) composizioni fra Meistergesänge, Spruchtgedichte e Fastnachspiele e di quasi 200 drammi; era praticamente coetaneo di Martin Lutero (1483-1546) al quale peraltro ha dedicato la più nota delle sue composizioni, “L’Usignolo di Wittemberg”, vivendo pertanto tutti i drammi della Riforma e delle lotte – politiche e non solo – che l’hanno accompagnata. L’evento è quello di una gara di poesia e di canto che una confraternita di artigiani promuove annualmente nella cittadina bavarese con un’ampia partecipazione popolare e violenti scontri di potere fra conservatori e progressisti. Gli abiti moderni sulla scena (curati da Yan Tax) insieme alle scintillanti impalcature metalliche addossate ai ruderi di una cattedrale gotica (un’allusione alla Gedächtniskirche simbolo della Berlino distrutta dalla guerra?) sembravano indicare l’inquietante attualità della vicenda.

L’aspetto più intrigante del libretto wagneriano consiste nell’analisi del rapporto fra la tradizione e la prassi da una parte, e l’innovazione e la creatività dall’altra, rapporto che i Cantori protagonisti dell’opera devono sviscerare per decidere sull’ammissibilità e sul valore di un approccio poetico e musicale che sconvolge le loro regole e mette in discussione le loro consuetudini: l’arte, dice Sachs, deve riconoscere le tradizioni per trasgredirle e deve rispettarle anche quando le sta rivoluzionando. Il Die Meistersinger von Nürnberg ha avuto una gestazione molto lunga, a partire dalle idee iniziali del 1845 fino alla prima esecuzione del 1868 a Monaco (a Milano lo si conoscerà solo nel 1889, ventun anni dopo), e sembra scritto per spiegare e giustificare la rivoluzione musicale introdotta da Wagner nell’opera lirica. Ma Wagner non è stato solo rivoluzionario, è stato ed ha voluto essere soprattutto profeta e custode delle radici della cultura germanica, e di questo conflitto trasudano tutte le pagine dell’opera.

Il finale è – oltreché incantevole dal punto di vista musicale – molto sconcertante nei suoi risvolti politico-culturali: “Attenti! Maligne insidie ci minacciano: se un giorno popolo e impero tedesco cadessero sotto falsa maestà latina (sic), nessun principe comprenderà più il suo popolo; e i sovrani trapianteranno in terra tedesca fumo latino con latina cianfrusaglia (sic). Nessuno saprebbe più ciò che è tedesco e puro se non vivendo nell’onore dei maestri tedeschi. Perciò vi dico: onorate i vostri maestri tedeschi ed evocate i loro buoni spiriti! E se favorite le loro azioni finisca pure in polvere il Sacro Romano Impero, ci resterebbe sempre la sacra arte tedesca!”. Non è politicamente né storicamente corretto attribuire al nazionalismo di Wagner le colpe di ciò che sarebbe accaduto non molti decenni dopo ma, per quanto si possa oggi essere serenamente germanofili, queste parole non hanno perso un suono sinistro … .

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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