16 marzo 2016

musica – MURRAY PERAHIA


MURRAY PERAHIA

Esprimere delle perplessità sulla interpretazione di un capolavoro da parte di uno dei mostri sacri del pianismo internazionale, per di più molto amato dal pubblico e vezzeggiato dalla critica musicale, è una impresa improba che affronto con grande difficoltà e imbarazzo, alla quale mi accingo solo per tener fede al patto di lealtà che mi lega ai miei quattro lettori, e cioè all’impegno di essere totalmente libero, fino all’impertinenza.

musica10FBDunque l’altra sera uno dei concerti più attesi dell’anno, il recital del grande Murray Perahia al Conservatorio dove ha suonato – per la Società del Quartetto – Mozart, Brahms e Beethoven. Un programma intenso, ricco, generoso, il cui filo conduttore è molto sottile eppure ben percepibile all’ascolto: riconnettere il mondo classico a quello romantico – accostando il Mozart lirico e appassionato del Rondò K. 511 e della Sonata K. 310 al Brahms maturo e solare dei Klavierstücke opere 118 e 119 – passando attraverso la più tormentata delle Sonate di Beethoven, la Hammerklavier opera 106.

Le due opere di Mozart (1787 e 1778) precedono la rivoluzione francese, la Hammerklavier (1817/18) è di poco successiva al Congresso di Vienna, i Klavierstücke sono stati scritti da un Brahms sessantenne in piena Belle Époque (1893); fra le prime e l’ultima trascorre più di un secolo durante il quale è cambiato il pianoforte e il modo di suonarlo, è cambiato il modo di scrivere, di eseguire e di ascoltare la musica, sono cambiati la Mitteleuropa e il mondo intero; Beethoven è stato sicuramente uno dei grandi protagonisti del cambiamento fra il sette e l’ottocento, più rivoluzionario ancora di Mozart e di Brahms che pure non scherzavano quanto a capacità di innovare struttura e linguaggio musicale. E tuttavia nel Brahms della maturità prima ancora che il trasporto e l’emotività, proprie del romanticismo, si ritrovano la limpidezza, la lucentezza, l’ideale di bellezza che era proprio di Mozart: questo il filo sottile di cui dicevo.

Complimenti dunque a Perahia per aver messo in luce relazioni e aver proposto richiami tanto sofisticati quanto essenziali per comprendere gli aspetti più intimi e reconditi di quella musica che spesso ascoltiamo senza far troppo caso alla complessità dei suoi significati.

Sono invece molto meno d’accordo con lui su alcune scelte interpretative. Mentre credo che Perahia abbia dato il meglio di sé restituendoci il radioso Rondò mozartiano e i soavi Klavierstücke di Brahms, e che sia stato grandioso nel realizzare con la Hammerklavier una perfetta sintesi della poetica beethoveniana e una puntuale introduzione alle tre celeberrime ultime Sonate (le opere 109, 110 e 111), mi chiedo se sia stato altrettanto incisivo e profondo nell’interpretare la Sonata K. 310 in la minore che – come tutti sanno – è uno dei capolavori pianistici, forse il più grande, del Salisburghese. Per giustificare questo assunto mi vedo costretto a qualche dettaglio tecnico di cui mi scuso con il lettore.

Comincio col dire che l’Allegro del primo movimento è indicato da Mozart come “Allegro maestoso” ed è in minore (si noti che delle 19 Sonate per pianoforte, solo due sono in minore, questa e la K. 457 di sei anni successiva); “maestoso” deriva ovviamente da “maestà”, il suo passo ha dunque a che fare con l’incedere lento e solenne proprio della massima autorità civile quando si autorappresenta pubblicamente. Mozart non dava indicazioni metronomiche (il metronomo, osserva Bossini nel programma di sala a proposito delle stravaganti indicazioni di Beethoven, è stato inventato nel 1815) e dunque quando scrive “allegro maestoso” indica che è sì un Allegro, dunque un tempo veloce, ma non “con brio” né “agitato” e neppure “con moto”. Dice “maestoso” e dunque solenne; dove è finita la solennità nella lettura di Perahia?

Velocissima, come oggi si usa e troppo spesso a sproposito, la sua lettura non aveva nulla di regale, di “alto”, di nobile (si può dire?), tale da suscitare rispetto oltre che ammirazione. (Ricordo per inciso che in occasione di un precedente concerto di Perahia del 2013 suggerii di ascoltarlo in un forsennato terzo tempo della beethoveniana “Sonata quasi una fantasia” opera 27 n. 2 aprendo questo link. Si può farlo anche ora e restarne ancora tramortiti). Insomma non credo che il maestro nuovayorkese abbia approfondito molto questo tema; a meno che, come mi è parso di capire, si sia innervosito per il trillo di un cellulare esploso durante le prime battute della Sonata e abbia proseguito suonando – diciamo così – rabbiosamente!

Il secondo tempo è un “Andante cantabile”, e cantabile significa “che si può cantare”; anche qui Perahia sembra non essersi reso conto che rendere cantabile un Andante significa portarsi verso la “Romanza”, meglio ancora verso l’”Aria” dell’opera lirica. Sembra invece che egli qui, più che nel primo movimento, abbia voluto indulgere al maestoso, dandoci una lettura decisamente fredda e distaccata, ben lontana da quell’anticipazione del romanticismo che sembrava suggerita dall’impaginazione del programma (e anche dal successivo, fin troppo repentino, attacco dei Klavierstücke di Brahms).

Ma la cosa meno convincente di tutte è stato il “Presto” finale della Sonata in la minore che, scritto in forma di rondò, ha un ritornello arcinoto per l’inusuale indicazione dinamica di mano mozartiana e per il gioco di legature che la sottende; Mozart non lega fra loro le note delle battute contigue sicché fra la croma che conclude la battuta precedente e la semiminima con cui inizia quella successiva si determina una sospensione appena percettibile che produce l’effetto di un singhiozzo, il singhiozzo di un pianto sommesso. Con la consueta, eccessiva velocità, Perahia ignora gli stacchi, le sospensioni, i singhiozzi. Un vero peccato.

Straordinari invece i “pezzi” per pianoforte di Brahms che sembrano proprio essere nelle corde più intime di Perahia (il quale peraltro – e a mio avviso non è del tutto un caso – ha la stessa età che aveva Brahms quando li ha scritti) che li ha eseguiti con una semplicità e una luminosità esemplari, realizzando così quel collegamento a Mozart che ci è sembrato il vero senso del concerto. Non si è capito bene, invece, perché abbia concluso la prima parte del concerto con il Capriccio opera 116 n. 1, sempre di Brahms, di cui non si sentiva il bisogno e che non trovava posto nella logica del programma.

Nel secondo tempo, con l’Hammerklavier, il concerto di Perahia ha raggiunto l’apoteosi; una tensione da brivido, soprattutto nell’”Adagio sostenuto” del terzo movimento, così difficile da “tenere insieme” per la sua complessità e per l’arditissima concettualità; una tensione che si percepiva fisicamente, sia nell’aria che sulle facce del pubblico, e che ha tenuto senza fiato l’intera sala fino allo scoppio dell’ovazione finale, liberatoria, molto più consapevole e meno sanguigna del solito.

Saggiamente Perahia non ha concesso il bis e il pubblico non ha insistito. E come si sarebbe potuto, dopo una Hammerklavier di tale potenza?

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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