19 gennaio 2016

musica – MIKHAIL PLETNEV


MIKHAIL PLETNEV

Esita a sedersi al pianoforte, guarda bene il pubblico come per misurarne la disponibilità o la pericolosità, finalmente si decide e subito, fin dalle prime note, si capisce che è un pianista diverso dagli altri, che non possiamo sapere se ci piacerà o no ma che dovremo fare i conti con qualcosa di alternativo. È Mikhail Pletnev, uomo maturo ma non anziano, che arriva dalla estrema Russia delle aurore boreali preceduto da una solida fama di grande solista. La Società del Quartetto l’aveva già ospitato venti, sedici e dodici anni fa, molti se lo ricordano come un erede di Richter, beniamino di Gorbachov, poi di Eltsin e infine di Putin, inviato in occidente quasi come ambasciatore della grande scuola pianistica russa.

musica02FBIl programma è molto singolare: Preludio e Fuga di Bach (BWV 543) trasportato da Liszt dalle tastiere dell’organo a quella del pianoforte, una Sonata (opera 7) e una Ballata (opera 24) di Grieg, tre Sonate di Mozart (K. 311, 457 e 533/494). Cosa c’entra Grieg, direte giustamente, e perché accostarlo a Bach anziché eseguirlo in ordine cronologico dopo Mozart? L’arcano viene svelato da una brillante studentessa del Conservatorio, Giulia Ferraro, che nel programma di sala racconta come Grieg norvegese di Bergen (e guarda caso proveniente come il pianista da un paese del grande nord) negli anni intorno al 1860 sia andato a studiare musica a Lipsia, la città in cui Bach aveva vissuto gli ultimi ventisette dei suoi sessantacinque anni di vita, dove Mendelssohn lo ha riscoperto e – in quella straordinaria sala da concerto che era la originaria Gewandhaus – ne ha riproposto le opere a partire dalla Matthäuspassion, e dove Schumann stava organizzando la pubblicazione dell’Opera Omnia bachiana.

Pletnev si siede al pianoforte, dicevo, e invece del suono bachiano cui da anni siamo abituati (quella asciuttezza che rese celebre Glenn Gould e di cui oggi Schiff è alfiere perfino esagerato) ci immerge in un suono lisztiano, con uso abbondante del pedale, in un gioco di sonorità calde e rotonde, tipiche del romanticismo tedesco. Passi per il Preludio, ci siamo detti, in cui forse vuole imitare l’atmosfera sonora creata dall’organo fra le volte delle cattedrali, ma l’assenza di astrazione logica e di estrema nettezza del suono nella Fuga – che nella parte centrale e in chiusura il pianista russo arricchisce di un potente e non richiesto crescendo – ci ha decisamente disorientato e spaesato. Vuole forse portarci lentamente fra le braccia di Grieg, abbiamo pensato, vorrà suonarlo come lo avrebbe suonato il maestro norvegese quando lo scoprì, un secolo e mezzo fa. Chissà.

Ammesso anche che queste fossero le intenzioni, i due pezzi di Grieg non sono apparsi legati a tali premesse e neppure così interessanti da meritare tanta attenzione; se paragonate allo strepitoso “Concerto per pianoforte e orchestra” in la minore opera 16, o anche solo a quei gioielli che sono i suoi Lyrische Stücke per pianoforte, la Sonata opera 7 è apparsa abbastanza ingenua, nonostante qualche bella reminiscenza della “liquidità” chopiniana, mentre la Ballata opera 24 “in forma di variazioni su un tema norvegese” è risultata addirittura un poco noiosa. Tuttavia non era facile sottrarsi al magnetismo dell’interprete, capace di dare un senso preciso e controllato a ogni nota e un perfetto peso ai pieni e ai vuoti, ai piano e ai forte, senza mai alzare la voce o cadere nel melenso. Insomma, in qualche modo nella prima parte il concerto ha tenuto, sia pure con qualche perplessità, e il pubblico è sembrato gradire.

Con le tre Sonate di Mozart le cose sono cambiate; non vi erano trascrizioni che le avessero contaminate, né accostamenti che avessero suggerito interpretazioni ardite. Pletnev ha giocato a tu per tu con l’autore e si è preso libertà della cui liceità – prima ancora della cui ragionevolezza o positività – c’è da dubitare.

I tempi veloci sono tutti passati da Allegro a Prestissimo, senza alcuna ragione, anzi con il torto di mettere a disagio gli ascoltatori che stentavano a seguire il filo logico dello spartito; da un compassato musicista in età matura non te lo saresti aspettato, la velocità estrema è la nuova e deprecabile tendenza di molti giovani talenti. Al contrario gli Andanti mozartiani, che sono sempre intrisi di serenità e di dolcezza, venivano trasformati in Adagi o in Lenti, evocatori di profonde malinconie e nostalgie; nelle ultime sonate, a dispetto della loro straordinaria “innocenza”, diventavano quasi presagi della fine imminente, una eco delle ultime Sonate di Beethoven. Ma perché?

Qui non si tratta di pretese filologiche o di particolari proposte interpretative a partire da nuovi assunti o da nuove scoperte; a mio avviso la chiave per capire il senso di tutto il concerto è stata data da Pletnev stesso quando ha proposto come bis “Il Sogno d’amore” e dunque ha concluso il programma con quello stesso Liszt che aveva trascritto il primo brano di Bach. In altre parole Pletnev ha costruito e suonato tutto il programma come l’avrebbe costruito e suonato Franz Liszt, a Lipsia o a Weimar, totalmente immerso nella cultura romantica degli anni 1860/70, incastonando il contemporaneo Grieg fra un Bach resuscitato e un Mozart riletto alla luce delle ultime prove di Beethoven. Straordinario. Qualcuno alla fine ha commentato “meglio così che non le solite asettiche e ripetitive esecuzioni degli interpreti politically (?) correct”. Mah. Allora però Pletnev avrebbe dovuto avvertirci prima. O no?

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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