23 dicembre 2015

musica – IAN BOSTRIDGE


IAN BOSTRIDGE

Ogni volta che Ian Bostridge approda da queste parti si accende una discussione complessa sulle sue qualità tenorili, sulla sua intelligenza musicale, sul quel modo molto “british” con cui affronta il repertorio liederistico mitteleuropeo.

musica45FBÈ arrivato alla Società del Quartetto martedì scorso con un concerto memorabile da molti punti di vista, e questa volta la discussione è stata ancor più vivace perché era da poco stato ospite della Scala – in gennaio, portandovi i Schwanengesang (il Canto del cigno) D. 957 di Schubert insieme ai Dichterliebe (l’Amore del poeta) opera 48 di Schumann -, perché era accompagnato da Julius Drake – che è un grandissimo pianista e da oltre dieci anni suo strettissimo collaboratore -, soprattutto perché ha affrontato uno dei più grandi capolavori della liederistica di tutti i tempi, il Winterreise di Schubert. (Molti critici dicono “la Winterreise” perché in tedesco viaggio è femminile – die Reise – ma sarebbe corretto non usare alcun articolo, così come volle lo stesso Schubert che chiamò il ciclo semplicemente Winterreise, ovvero Viaggio d’Inverno).

Non solo: a creare maggior clamore intorno all’evento, negli stessi giorni Bostridge – che è considerato uno dei più grandi interpreti del repertorio liederistico, in particolare dei Lieder schubertiani, e uno studioso di vasta cultura, con lauree (Oxford e Cambridge) in storia e filosofia – dava alle stampe un ponderoso volume dal titolo “Il (sic!) Viaggio d’inverno di Schubert, anatomia di un’ossessione” per i tipi de “il Saggiatore” che – il giorno dopo il concerto, insieme a Enzo Restagno – presentava al MA.MU, il Magazzino di Musica di via Soave.

Winterreise, come tutti sanno, è un ciclo di 24 Lieder musicati da Schubert nell’ultimo anno della sua vita, quando era già devastato da quel morbo pestilenziale allora tanto diffuso – la sifilide – e quindi con un sentimento di morte nell’anima; i testi sono del poeta tedesco Wilhelm Müller, suo quasi coetaneo (Schubert è nato nel 1797 ed è scomparso nel 1828, mentre Müller è nato nel 1794 e morto nel 1827!), del quale il musicista austriaco aveva già tre anni addietro utilizzato l’opera con il ciclo “Die schöne Müllerin” (“La bella mugnaia”), altro capolavoro dello stesso genere musicale. L’ascolto dell’intero ciclo è abbastanza raro in Italia, tanto quanto è frequente nei paesi anglosassoni dove il Lied è tenuto in altissima considerazione e considerato uno dei pilastri della cultura musicale, classica e non solo; e coloro che sono in grado di apprezzare questi cicli di Lieder ne diventano cultori appassionati e ne traggono profondo godimento.

Da aggiungere che non è affatto chiaro per quale voce sia stato scritto Winterreise (porta la sola indicazione “per canto e pianoforte”) e che noi siamo abituati a sentirlo cantare più da un baritono – chi può dimenticare il grande Dietrich Fischer-Dieskau? – che da un tenore (e sappiamo anche che vi si è cimentata qualche voce femminile ma in tal caso si deve immaginare che sia stato necessario trasportare il testo pianistico in una tonalità diversa dall’originale, con legittimità più che dubbia); c’era dunque anche l’aspettativa di sentire un Winterreise con colori e timbri tenorili anziché baritonali. Tutti sapevano che si sarebbe trattato di un grande evento e infatti la sala Verdi del Conservatorio era molto più piena del solito.

Come è stato il concerto? Qui tutto si complica perché se da un lato non si può non restare estasiati di fronte alla bellezza e alla duttilità della voce di Bostridge, alla capacità di esprimere i complessi e contraddittori sentimenti del “Viaggio” usando oltre alla voce il corpo (un corpo giovane e asciutto, nonostante abbia superato i cinquanta, lungo e sottile, allampanato e dinoccolato, paragonabile a quello di certi neri della iconografia storica del jazz) e la mimica facciale come un consumato attore, dall’altro si rimane esterrefatti dalla teatralità dell’interpretazione, dalla gestualità che sopraffà la musica e il suo contenuto, dai chiaroscuri che fanno scomparire alcune note ed esploderne altre, dall’altissima drammaticità che sovrasta la malinconia e la nostalgia schubertiane; si appoggia al pianoforte come per affacciarvisi, con l’aria dolente o ironica o ilare, quasi sussurra e quasi urla una musica che – pensando alle dolcissime melodie con cui è costruita – andrebbe molto più semplicemente “cantata”. Oltre a ciò dispiace che la bella e musicale lingua tedesca di Müller venga deformata dalla pronuncia inglese di Bostridge che nulla ha a che vedere con quella musica e con quei versi.

Bisogna però anche riconoscere – e qui diventa evidente la difficoltà di esprimere un giudizio complessivo – che la teatralità e la drammaticità di cui Bostridge fa sfoggio hanno un loro intrinseco fascino e in un certo senso si offrono come una lettura “moderna” del Winterreise, svelandone risvolti nascosti; l’esito potrebbe sembrare una versione “espressionista” del Lied, con l’evocazione di certe figure di Schiele quasi a rappresentare la tragicità del viaggio verso la morte (Müller), e la sofferenza della malattia (Schubert).

Altro risvolto più che positivo è stata la perfetta esecuzione della parte strumentale: Julius Drake è un magnifico pianista e un ancor più grande accompagnatore, e la simbiosi fra i due è risultata esemplare. Vi è grande intesa fra loro come accade quando le persone sono avvezze a suonare insieme, raggiungono lo stesso sentire, perseguono gli stessi obiettivi e hanno le medesime strategie interpretative. Una vera gioia sentirli insieme.

Conclusione. Sì, un grande concerto, una esecuzione ardita, coraggiosa, molto personale, con qualche perplessità sulla legittimità e l’appropriatezza dell’interpretazione. In ogni caso uno stimolo ad approfondire un’opera che di solito viene trascurata o considerata minore e che invece appartiene alle più alte vette della musica romantica nel momento stesso del suo nascere (ricordo che nel 1828 Chopin aveva 18 anni, Liszt 17 e Wagner e Verdi solo 15, mentre Beethoven era morto appena un anno prima).

Infine, a proposito del libro presentato al MA.MU., è bello leggervi che esso è “il risultato di tre decenni di ossessione per «la Winterreise» (sic!), di esecuzioni e di ricerca di nuovi modi di cantarla, presentarla e capirla” (come volevasi dimostrare) e più avanti che “le descrizioni verbali di questa musica proteiforme sono nel migliore dei casi provvisorie e nel peggiore del tutto inadeguate” (e dunque ho fatto bene ad astenermi). Ma sopratutto è stato dolce leggere che il libro – la cui dedica è formalmente offerta “alla bella mugnaia” – in realtà viene poi dedicato “alla mia adorata moglie nonché mia migliore amica … Il suo amore e la sua compagnia rendono tutto possibile”. Chapeau.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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