11 novembre 2015

musica – VERDI E BERG


VERDI E BERG

Questo mese di novembre ha regalato, a noi musicofili, una serie di magnifiche perle fra loro incomparabili, raccolte qua e là in acque tutte diverse. Mi riferisco alla Messa da Requiem di Verdi diretta da Jader Bignamini all’Auditorium, al Wozzeck di Alban Berg diretto da Ingo Metzmacher alla Scala, al recital di Radu Lupu a Lugano nella nuovissima sala del LAC (Lugano Arte Cultura), poi ancora all’Auditorium a uno straordinario concerto di musiche russe (Khačaturian e Šostakovič) dirette ed eseguite da due giovanissimi musicisti di quel Paese, e infine alla seconda parte dell’integrale delle musiche per violoncello e pianoforte di Beethoven eseguite da Mario Brunello e Andrea Lucchesini per la Società del Quartetto al Conservatorio. Cinque serate indimenticabili che dimostrano ancora una volta come Milano (e da questo punto di vista, non ce ne vogliano i ticinesi, Lugano ci “appartiene”), anche senza scomodare l’Expo, sia una delle grandi capitali della musica internazionale!

musica39FB Cominciamo dal Requiem che dal 1997 è una delle partiture più eseguite all’Auditorium dall’orchestra Verdi, presente in più di venti delle venticinque stagioni di vita dell’orchestra, sempre replicata due o tre volte, con almeno dieci direttori diversi fra i quali ovviamente ha primeggiato Riccardo Chailly. Jader Bignamini, che oltre ad essere stato “scoperto” dalla Verdi ne è oggi uno dei direttori migliori, fra i più apprezzati e amati, l’aveva affrontata già molto bene nella scorsa stagione ma in questa occasione ha rivelato una particolare maturità; è riuscito, per esempio, in una impresa che pochi direttori affrontano e vincono, quella di dare a ogni ripresa del “Dies irae” un senso diverso.

Mi spiego meglio. Il “Dies irae” è la seconda delle sette sezioni (le altre sono il “Requiem e Kyrie” iniziale, il “Domine Jesu”, il “Sanctus”, l’”Agnus Dei“, il “Lux aeterna” e il “Libera me”) in cui è diviso il Requiem. Ma è anche un versetto – “Dies irae, dies illa, solvet saeclum in favilla, teste David cum Sibylla” – affidato al coro in fortissimo che si ripete cinque volte nella sua sezione, alternandosi come un ritornello alle arie dei solisti, e ritorna per altre due volte nell’ultima sezione. La gran parte dei direttori lo esegue ripetendolo sette volte sempre uguale a se stesso, Bignamini riesce a dargli significati di volta in volta diversi in funzione della collocazione nel testo. All’inizio, subito dopo il “Kyrie”, lo presenta per quello che è, una potente apocalittica minaccia (“Giorno terribile quel giorno, quando il mondo finirà incenerito secondo la profezia di Davide e della Sibilla”); ma poi, nelle ripetizioni che si susseguono come in un tragico e solenne rondò, diventa poco a poco una eco dolente fino a servire da introduzione al “Lacrimosa” con cui si conclude la sezione; quando il “Dies irae” ricompare nell’ultima sezione, il “Libera me”, Bignamini lo ripropone con la forza originale e nell’ultima ripresa, prima della conclusione, lo smorza fin quasi a spegnerlo.

(Una simile magìa fu proposta, nel 1991, da Roberto Abbado in una magnifica esecuzione nel suo debutto con il Requiem verdiano nella abbazia benedettina di Einsiedeln, non lontana da Zurigo). Il pubblico dell’Auditorium, generalmente sfrenato nel festeggiare i suoi beniamini a fine concerto, sulle ultime sublimi note del “Libera me Domine” era visibilmente commosso e turbato, e gli applausi avevano il sapore più del ringraziamento che del trionfo.

I solisti forse non erano proprio al massimo, probabilmente a causa dei malanni di stagione, ma il duetto dell’”Agnus Dei” fra la soprano Sara Rossi Daldoss e la mezzosoprano Maria José Montiel è stato sublime, e così il tenore Danilo Formaggia – che all’inizio era parso un po’ freddo – ha dato il meglio di sé unendo la propria voce, nel “Lux aeterna”, a quella potente del basso Enrico Giuseppe Jori. Il coro, istruito come sempre dalla bravissima Erina Gambarini, ha assecondato il direttore con grande cura ed attenzione e lo si è potuto osservare in particolare nella difficile fuga per doppio coro del “Sanctus”.

Facciamo un salto di mezzo secolo e, passando dal 1874 al 1924, parliamo del Wozzeck ritornato in questi giorni alla Scala nella versione creata nel 1997 dal tedesco Jürgen Flimm per la direzione del grande Giuseppe Sinopoli; da allora ad oggi l’opera è stata ripresa nel 2000 con la direzione di James Conion e nel 2008 con Daniele Gatti senza mai modificarne l’impianto, tanto che la stessa aiuto regista della prima, Giovanna Maresta, ne ha curato tutte le riprese, questa compresa. Alla Scala l’opera era già stata messa in scena meravigliosamente da Luca Ronconi nel 1977 con scene e costumi di Gae Aulenti e la direzione di Claudio Abbado (strano destino, tutti e tre i protagonisti di quell’edizione sono scomparsi recentemente, a poca distanza di tempo l’uno dall’altro) e fu ripresa nel 1979; mentre nel 1978, per completare l’omaggio a Berg, ci fu una memorabile Lulu diretta da Pierre Boulez ed eseguita dall’Orchestra dell’Opera di Parigi con la regia di Patrice Chéreau. Tempi meravigliosi!

Il Wozzeck, come peraltro Lulu, è un’opera che riesce a raccogliere dal punto di vista musicale l’entusiasmo degli amanti di tutti i periodi della grande musica colta dell’occidente, dal classico al romantico, dal moderno al contemporaneo (e a differenza di Wagner è amata persino da molti fanatici verdiani!), perché riesce a far vibrare tutte le corde dell’animo umano ponendosi fuori dagli schemi consacrati dell’opera lirica, sottraendosi cioè alle mode, ai problemi “tecnici” del linguaggio e della forma, e anche – pur essendo melodicamente ricchissima – alle facili lusinghe del cantabile.

Interessante osservare come ha reagito la critica “ufficiale” (o meglio quella del Corriere della Sera) a questa edizione dell’opera di Berg. Quando nacque, nel 1997, Paolo Isotta definì la regia di Flimm  “generica e volgare”  (domenica 2 marzo, pagina 37); commentando la ripresa odierna Enrico Girardi scrive invece che l’allestimento “ha 15 anni ma non li dimostra, anzi, invecchia così bene che sembra legittimamente aspirare a diventare un classico”. Dunque posso dire anche la mia: l’allestimento è bello, è vero, e non invecchia affatto. Solo che, come spesso capita con l’opera tedesca (ricordate il “Die Soldaten” di Zimmermann?), il palcoscenico ha un immotivato sopravvento sul golfo mistico: in scena avvengono troppe cose che distraggono dall’ascolto e la regìa tende a trasformare l’opera in un film o in una pièce teatrale con la musica ridotta al ruolo di commento. Provare per credere, ci sono ancora due repliche e il teatro purtroppo è mezzo vuoto. Peccato.

Dei due recital cameristici e del concerto di musiche russe dirò la settimana prossima; ho giusto il tempo, prima di “andare in macchina”, di dire che sono stati sublimi. Radu Lupu ha eseguito Variazioni di Brahms, Beethoven e Mozart concludendo con la meravigliosa Sonata in sol maggiore di Schubert; il duo Brunello – Lucchesini ha eseguito anch’esso delle Variazioni di Beethoven – ma per violoncello e pianoforte – su un tema mozartiano, ma soprattutto quei tre grandiosi monumenti della storia della musica che sono le Sonate opera 69 e opera 102. E infine l’anima russo è emerso con una chiarezza sorprendente da due capolavori sinfonici del tragico secolo scorso, magnificamente eseguiti da due esponenti della nuova generazione di quel Paese. Alla prossima settimana.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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