7 gennaio 2015

musica – MISSA SOLEMNIS ALLA SCALA


MISSA SOLEMNIS

L’ultimo concerto sinfonico del 2014, alla Scala, è stato un evento tanto importante quanto inusuale; non è infatti nella tradizione del nostro Teatro eseguire musica sacra, e tantomeno musica d’occasione per le grandi feste religiose come il Natale, appunto, o la Pasqua. Penso dunque che abbia fatto molto bene Pereira a dare un segnale in questo senso e a iniziare il suo lavoro nel Teatro con la grande “Missa solemnis” di Beethoven, proposta il 21 dicembre scorso fuori abbonamento e dunque coraggiosamente aperta a tutti con il rischio, sotto le feste, di un flop al botteghino.

musica01FBNonostante il concerto sia stato denominato “di Natale“, bisogna osservare che la grande Messa opera 123 non è propriamente musica natalizia avendo a che fare più con la fine della vita che con la natività: è stata scritta fra il 1819 e il 1823, gli stessi anni della Nona sinfonia opera 125, delle Variazioni Diabelli opera 120, e dell’ultima Sonata per pianoforte opera 111, e dunque è una delle ultime opere di Beethoven, dopo la quale vi saranno sostanzialmente solo gli estremi magici Quartetti. Ma è pur sempre musica sacra e la sala era comunque gremita, in ogni ordine di posti, segno che la scelta è stata azzeccata.

Beethoven non aveva una grande dimestichezza con la vocalità; ha scritto un’unica opera lirica – quel Fidelio che gli ha creato una montagna di problemi – ha coraggiosamente introdotto soli e coro nella sua ultima Sinfonia, e aveva scritto un’altra Messa (quella in do maggiore, del 1807) che ebbe scarsissimo successo. Per inciso ricordo che si è detto e scritto molto per spiegare il grande successo del finale della Nona, il celebre Inno alla gioia schilleriano, dovuto sicuramente più alla estrema cantabilità del suo tema che non alla intrinseca qualità della sua partitura; e se molti storceranno il naso a queste parole, ricordo che subito dopo la prima viennese della Nona sinfonia, il 7 maggio del 1824, sull’autorevole “Allgemeine Musikalische Zeitung“, Leopold Sonnenleithner confermò che lo stesso Beethoven aveva confessato ad alcuni amici la propria insoddisfazione e amarezza nei riguardi del corale finale!

Dunque questa Missa solemnis è stata opera di grandissimo impegno per Beethoven, altrettanto problematica quanto il Fidelio, e ha impiegato diversi anni per giungere alla stesura definitiva; anche per questo la scelta di eseguirla inframmezzandola alle repliche del suo capolavoro teatrale ritengo sia stata più che felice. Beethoven avrebbe sicuramente apprezzato!

Se veniamo all’esecuzione, però, non possiamo dirci altrettanto soddisfatti: a fronte di un coro strepitoso, magistralmente preparato dal suo grande direttore Bruno Casoni, l’orchestra della Scala, come spesso capita, non ha dato il meglio di sé; e quanto ai solisti, a fronte delle due bellissime voci femminili – quelle di Krassimira Stoyanova (che ha magnificamente sostituito Edith Haller) e di Daniela Sindram, rispettivamente soprano e mezzosoprano – non hanno affatto brillato quelle maschili e cioè la voce del basso Günther Groissböck, ben impostata ma con scarsa potenza, e quella dell’insopportabile e inaccettabile tenore australiano Stuart Skelton.

Un discorso a parte merita il quarantenne zurighese direttore d’orchestra, Philippe Jordan, recentemente nominato direttore musicale dell’Orchestra di Vienna che, evidentemente abituato a dirigere orchestre squisitamente sinfoniche, si è trovato a mal partito con quella del nostro teatro lirico ottenendo, come risultato, una messa-melassa non molto attraente, priva di drammaticità e un po’ sonnolenta: il Kyrie, costruito su un bel tema bachiano, era stranamente calante; il Gloria sembrava un grido di giubilo un po’ isterico; il Credo, compresa la grande fuga “et vitam venturam“, mancava di una solida struttura interpretativa. Con il Sanctus, finalmente, le sorti della serata si sono miracolosamente risollevate ed il celebre celestiale assolo del Benedictus – eseguito dall’eccezionale primo violino Francesco Manara – ha letteralmente commosso il pubblico. Bene infine i quattro solisti – persino il tenore! – nel quartetto “a cappella” (cioè senza accompagnamento strumentale) che precede l’Osanna (forse un po’ forsennato nella visione del Jordan) e finalmente una degna conclusione con l’Agnus Dei, capolavoro polifonico di Beethoven, ben concertato e delicatamente interpretato dal basso che è persino riuscito a non farsi sovrastare dal possente coro.

Questa Messa – che, come dicono Poggi e Vallora, è il simbolo della cosiddetta “terza maniera beethoveniana” e che l’Autore considerava la sua “opera più riuscita” – fatica a trovare lo spazio giusto in cui essere ascoltata. Non è il teatro lirico, tanto meno l’auditorium, ma nemmeno la chiesa che, come si sa, ha di norma l’acustica “rovesciata” (si suona e si canta alle spalle dei fedeli, che non devono essere distratti dalla cerimonia religiosa, ma quando la musica viene eseguita sull’altare, davanti ai fedeli, l’acustica non funziona più!); la Scala, tutto sommato, le ha conferito un’aura solenne – esattamente quella del titolo assegnatole da Beethoven – che non guastava affatto, anzi.

Nonostante le pecche, dunque, grazie a Pereira per questa innovazione molto più appropriata, credo, del minacciato cambiamento dell’orario d’inizio dei concerti!

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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