10 dicembre 2014

musica – UNA SETTIMANA PIENA DI MUSICA


 

UNA SETTIMANA PIENA DI MUSICA

Molto difficile raccontare le emozioni musicali di questa ultima settimana: fortemente contraddittorie, appartenenti a generi diversi – un Requiem, un Quartetto d’archi sul tema della fuga, la prima del Fidelio alla Scala – fra loro assolutamente non comparabili e tuttavia capaci di riempire giornate intere di echi e di riflessioni.

Cominciamo dal Requiem di Mozart che una (a me) sconosciuta “Orchestra dell’Associazione Mozart Italia” di Milano insieme a un coro (a me) altrettanto sconosciuto “Canticum Novum” (ma con molti elementi del Coro della Verdi, compresa la sua brava direttrice Erica Gambarini) ha eseguito giovedì 27 novembre nella basilica di San Marco.

I milanesi sono abituati – soprattutto quando si tratta di musica classica – allo scrupoloso rispetto della puntualità e a un certo rigore nella organizzazione del concerto; sconcertante dunque che alle 20.30, a chiesa mezza piena, si stesse ancora provando un concerto che doveva iniziare alle 21. Coro e orchestra sono poi entrati alle 21.20 e per altri 10 minuti siamo rimasti tutti in rispettoso silenzio ad aspettare il direttore. Ma l’irritazione non si è fermata lì perché l’esecuzione è stata letteralmente funestata da fotografi che andavano, venivano e si agitavano come fossero alla premiazione di miss Italia. E se disturbavano i fotografi ancor più distraeva – e rendeva problematico l’ascolto – un inconsueto e scomposto agitarsi sul podio dello (a me) sconosciuto direttore, Aldo Bernardi, che sembrava un ballerino senza averne il fisico e che lasciava trapelare lo smodato desiderio di avere almeno dieci braccia e venti mani al posto della normale dotazione assegnatagli da madre natura.

Insomma una serata partita molto male eppure (… ecco perché ne parlo) proseguita in modo nient’affatto negativo perché il Requiem ha rivelato nonostante tutto un certo fascino; mancava, è vero, quella grazia e quella ironia cui Mozart non rinuncia neanche davanti alla contemplazione della morte ma in compenso, grazie alla scelta di tempi un po’ più lenti del solito, toccava momenti di drammaticità e di tensione molto suggestivi. Belle le voci di Daniela Bruera e di Laura Verrecchia, deboluccia quella tenorile di Giovanni Botta, un po’ troppo discreto il basso Alessio Cacciamani, nell’insieme si è rivelato un bell’esempio di quel magnifico dire che, a dispetto di qualsiasi malafatta, musica vincet semper!

* * *

musica43FBGrande consolazione, il giovedì successivo, con l’intrigante e colto programma presentato al Conservatorio dal Cuarteto Casals, un ensemble catalano che – dopo una prima visita a Milano nel 2006 – è tornato a suonarvi per la Società del Quartetto dedicando la serata alla preziosa forma della Fuga attraverso una serie di opere degli anni ’70 e ’80 del settecento.

La Fuga, si sa, ha avuto in Johann Sebastian Bach il massimo interprete e creatore; con la morte di Bach (1750), salvo sporadici interessamenti di alcuni fra i suoi numerosi figli, era diventata una forma desueta, un po’ per le intrinseche difficoltà della sua composizione, ma anche perché veniva considerata un tecnicismo un po’ arido, adatto più all’insegnamento del contrappunto che alla gioia dell’ascolto. Pochi sanno però che sia Haydn che Mozart si sono cimentati nella sua scrittura con mirabili risultati.

Il programma prevedeva l’introduzione dei due tempi del concerto con le “Cinque Fughe per Quartetto d’archi di Mozart dal
Clavicembalo ben temperato di Bach” (K.405, del 1782, e cioè in età più che matura del loro autore), tre prima e due dopo, e il corpo centrale del concerto costituito da tre Quartetti: uno di Haydn (opera 20 numero 5, del 1771) e due di Mozart (K.168 del 1773 e K. 387 del 1782) i cui ultimi movimenti sono costituiti da altrettante mirabili Fughe (in Haydn la fuga è doppia, con una indimenticabile ricchezza di voci che si rincorrono con mirabile fantasia). Per giunta fra i due Quartetti mozartiani hanno infilato quello straordinario “Adagio e Fuga in do minore” (una tonalità magica per Mozart), del 1788, che è una delle più alte lezioni di scrittura polifonica della seconda metà del settecento.

Un programma dunque di rara intelligenza se si pensa che la Fuga eseguita da un quartetto d’archi permette un ascolto particolarmente limpido, di gran lunga superiore a quello che ottengono il pianoforte o il clavicembalo, in quanto a ogni voce del contrappunto (punctus contra punctus) corrisponde uno strumento, sicché il processo compositivo si dipana davanti all’ascoltatore con una estrema chiarezza. Bravissimi e intelligentissimi i quartettisti Vera Martinez Mehner (violino), Jonathan Brown (viola) e i fratelli Abel (violino) e Arnau (violoncello) Tomàs che speriamo di riascoltare presto e spesso.

* * *

Infine come non tornare sul Fidelio, che ha felicemente invaso la città e non solo (si è detto che abbia avuto dieci milioni di ascoltatori fa televisioni, piazze, e sale cinematografiche; ma anche, in forza del suo soggetto, anche carceri!). La settimana scorsa dissi che la prova generale era stata ottima e che questo Fidelio nasceva sotto una magnifica stella. Sono felice di averlo detto perché la serata inaugurale di sant’Ambrogio ha superato ogni aspettativa, a dispetto di quanto hanno sostenuto i soliti tromboni della critica musicale “autorevole”.

Barenboim è stato capace di traghettare la musica di Beethoven dalle reminiscenze mozartiane della prima parte dell’opera, quando ancora ha il sapore della commedia, fino a vere e proprie anticipazioni wagneriane nel secondo tempo, quando diventa tragedia. Ha diretto con una cura, una concentrazione e una professionalità che ricordavano i tempi d’oro, quelli del Tristano di sette anni fa. Anche la regia e gli interpreti hanno fatto un ulteriore passo avanti rispetto alle prove, con una recitazione più convincente e comportamenti più accurati, in specie alle prese con la complessità psicologica degli indimenticabili trii e quartetti che scandiscono l’opera. Deborah Warner ha sorpreso il pubblico con l’inatteso e audace bacio fra Leonora e Marcellina mentre le luci di Jean Kalman, forse anche grazie alle esigenze della ripresa televisiva, sono ulteriormente migliorate.

Se qualche cosa può aver creato appena un po’ di perplessità è stato il finale (l’atteso sauvetage!) apparso leggermente confuso nei movimenti di scena, non perfettamente controllati, della massa corale. Poca, pochissima cosa per una magnifica edizione della quale si ricorderà con grande simpatia anche l’ambientazione moderna (una simpatia raramente concessa dal pubblico italiano!) e soprattutto una orchestra finalmente dignitosa e degna del nome che porta.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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