5 novembre 2014

musica – UN TRIO E UN REQUIEM


 

UN TRIO E UN REQUIEM

La Società dei Concerti, presente tutti i mercoledì al Conservatorio con le sue due serie “Rubino” e “Smeraldo”, mercoledì scorso ha proposto un “concerto straordinario” lanciandolo con la stessa inesauribile enfasi con cui accompagna usualmente la presentazione dei “suoi” artisti. Questa volta si trattava di un violoncellista americano di lungo corso, Lynn Harrel, con una carriera molto apprezzata negli States e in molti altri paesi ma ancora poco conosciuto in Italia nonostante alcuni concerti tenuti trenta e venti anni fa alla Scala, alla Fenice di Venezia e in Vaticano. E dunque ha ben meritato il presidente della Società dei Concerti, avvocato Mormone, per averlo fatto arrivare fin qui e averlo fatto riascoltare al pubblico milanese.

musica38FBLynn Harrel si è presentato in Trio con due musicisti molto più giovani di lui, il violinista lituano Julian Rachlin e la pianista cinese Zhang Zuo, con un programma che non lo ha premiato, adatto più a “lanciare” i colleghi che non a farci conoscere lui che, sia nell’aspetto che nell’atteggiamento, sembrava essere il loro Maestro. Suonare insieme, però, non è cosa elementare; sembra facile, può riuscire molto bene anche la prima volta, o facendolo sporadicamente, ma per raggiungere risultati di grande qualità occorrono anni e anni di lavoro in comune e la capacità di fondere le sensibilità individuali in un unico sentire. Ma tutto ciò matura lentamente, poco a poco; i Trii, e ancor più i Quartetti, devono essere delle strutture stabili, consolidate, non si possono mettere insieme tre o quattro musicisti solo per un concerto o una tournèe, non basta avere un buon feeling e fare qualche prova. Non basta neanche a musicisti bravissimi come quelli dell’altra sera.

Dunque il trio Harrel-Rachlin-Zuo (non posso chiamarlo diversamente) ha eseguito due Trii, entrambi connotati dal numero 1, il primo di Schubert, in si bemolle maggiore opera 99 (D898) e il secondo di Brahms, in si maggiore opera 8; ma mentre per Schubert si tratta di un’opera matura, il Trio di Brahms è al contrario un’opera giovanile. E lo si è percepito molto bene.

Schubert scrisse due soli Trii per violino, violoncello e pianoforte (il secondo in mi bemolle maggiore), entrambi nell’anno precedente la sua scomparsa, e fra i due non c’è confronto: di essi Schumann scrisse che “… mentre il Trio in mi bemolle è attivo, virile, drammatico, quello in si bemolle è passivo, femminile (sic!), lirico …”, e se quello in mi bemolle è un capolavoro grandioso, una delle più amate opere del compositore austriaco, l’altro – ancorché ricco di temi suggestivi e di momenti dolcissimi – ha sempre avuto minor successo, probabilmente per la sua frammentarietà, per la minore compattezza e coerenza formale.

Il trio di Brahms, a sua volta, non è affatto uno dei suoi capolavori: aveva vent’anni nel 1853, quando lo ha scritto, ed era appena entrato a far parte – diciamo così – della famiglia Schumann. Nonostante non gli sia mancato fin da subito un buon successo di pubblico, Brahms lo riscrisse quasi interamente nel 1889 a dimostrazione del fatto che qualcosa non andava bene. Ma, come si sa, le minestre riscaldate … .

Alla fine, per fortuna, un generosissimo bis ha salvato la serata e rianimato il pubblico: si trattava nientemeno del Trio dell’Arciduca di Beethoven (l’opera 97, anch’esso in si bemolle maggiore) che i nostri musicisti hanno ripreso a partire dal famosissimo Tema con variazioni “Andante cantabile” e completato con l'”Allegro moderato” finale. Questo sì, un vero capolavoro. Ed anche la sua interpretazione è apparsa più profonda, consapevole, attenta.

***

Tutt’altro concerto abbiamo ascoltato il giorno dopo all’Auditorium, dove l’orchestra e il coro della Verdi diretti da Jader Bignamini – maestro del coro come sempre la brava Erina Gambarini – hanno eseguito una strepitosa Messa da Requiem di Verdi; l’avevamo ascoltata meno di un mese fa alla Scala, diretta da Riccardo Chailly, e in questa rubrica avevo detto che si era trattato di una magnifica esecuzione. Avevo scritto “da anni non capitava di assistere a tanto impegno e a tanta concentrazione da parte dei duecento e più musicisti dell’Orchestra e del Coro del Teatro, di sentirli in perfetta armonia con il direttore e con i solisti, di vivere alla Scala uno di quei momenti magici e irripetibili che si vorrebbero eterni e che, quando finiscono, ci fanno sentire svuotati e inebetiti come quando scendiamo da una cima che non ci saremmo mai immaginati di raggiungere“.

Ebbene, è difficile crederci, ma il Requiem di Bignamini – forse anche grazie alla dimensione ridotta della sala ed all’ottima acustica – è stato ancor più emozionante e commovente, con l’orchestra e il coro che hanno suonato e cantato con una passione e una professionalità assolutamente straordinarie, da togliere il fiato; laVerdi, che da ormai diciassette anni esegue quest’opera, cambiando spesso il direttore (fra gli altri lo stesso Riccardo Chailly), che l’ha portata in tournèe in tutta Italia e a Vienna, a Budapest, persino a Baku e a Tokyo, laVerdi, dicevo, è in perfetta simbiosi con questo giovane direttore che proprio lì, solo cinque anni fa, dal leggìo del clarinetto piccolo è salito per la prima volta sul podio. Che meraviglia i violoncelli nell’incipit dell’Offertorio, e il coro nel fugato del Sanctus, e quegli ottoni così importanti in tutto il Requiem…!

Un discorso a parte meriterebbero i solisti, tra i quali brillava il basso Massimiliano Catellani (magnifico nel Mors stupebit), era un po’ sopra le righe la soprano Chiara Taigi, non erano sempre perfetti gli attacchi della mezzosoprano Anna Maria Chiuri (ma è stata deliziosa nel Lacrymosa); la potente voce del tenore algerino Yusif Eyvazov, però, era proprio sguaiata e totalmente estranea allo spirito del Requiem.

Finalmente, giunti all’incanto dell’Agnus Dei, quando le due voci femminili e il coro sembrano cantare a cappella perché gli archi che li accompagnano suonano all’unisono, e si viene a creare un’atmosfera da canto gregoriano che poco a poco volge a un ampio, grandioso corale, appena ingentilito dai brevi gruppetti dei legni, allora tutto diventa magìa e rapimento e si percepiscono insieme l’impegno e la preparazione dei musicisti, la sensibilità e l’autorevolezza del direttore, e la grandiosità di un’opera che contempla la vita e la morte da un’altezza vertiginosa.

 

 

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema


9 aprile 2024

VIDEOCLIP: LA MUSICA COME PRODOTTO AUDIOVISIVO

Tommaso Lupi Papi Salonia






20 febbraio 2024

SANREMO 2024: IL FESTIVAL CHE PUNTA SUI GIOVANI

Tommaso Lupi Papi Salonia



20 febbraio 2024

FINALMENTE

Paolo Viola



6 febbraio 2024

QUANTA MUSICA A MILANO!

Paolo Viola



23 gennaio 2024

MITSUKO UCHIDA E BEETHOVEN

Paolo Viola


Ultimi commenti