17 settembre 2014

musica – MITO, CHE GUAI COMBINI?


 

MITO, CHE GUAI COMBINI?

Se fosse vero l’aneddoto raccontato da Johann Nikolaus Forkel – primo biografo di Bach e frequentatore di quei suoi pochi figli che arrivarono alla maggiore età fra i venti partoriti dalle sue due mogli – e cioè che le Variazioni Goldberg furono scritte perché un tal Johann Gottlieb Goldberg (allievo di Johann Sebastian e clavicembalista personale del conte Hermann Carl von Keyserling, ambasciatore russo presso la corte di Dresda e ottimo musicologo) potesse accompagnare le notti insonni del suo signore con musiche sempre nuove e stimolanti, sarebbe la migliore dimostrazione che la musica ha assai poco a che fare con le circostanze che la fanno nascere.

musica31FBLe Goldberg (che ricordo essere 30 variazioni su una meravigliosa Aria che letteralmente “nasconde” un tema elementare nelle note basse del sostegno armonico) sono una sorta di esercizio di composizione che assomiglia alla parodia di uno scioglilingua, un virtuosismo per la tecnica della tastiera, un sofisma per verificare fino a che punto un tema apparentemente insignificante può essere sviluppato con esiti musicalmente interessanti: in pratica una scommessa! E non è un caso che per almeno un secolo nessuno si sia accorto che esse erano e sono un capolavoro, uno dei più grandi monumenti della musica europea di tutte le epoche; Mozart, Beethoven, Schubert le suonavano solo per tenersi in allenamento, per sciogliersi le dita. Bisogna arrivare agli anni magici di Mendelsshon e di Schumann perché ci si rendesse conto che erano ben altro. Per giunta queste Variazioni erano scarsamente utilizzabili in concerto, perché si pensava che potessero essere eseguite solo sul clavicembalo a due o tre tastiere e dunque, a causa del modesto volume di quello strumento, praticamente venivano suonate solo nelle case. Inoltre la forma delle Variazioni era assai poco familiare a Bach, che l’ha frequentata raramente o in modo surrettizio (si pensi all’Offerta Musicale), e c’è da credere che le abbia scritte anche perché sperava fossero ben pagate (come infatti pare sia andata a finire).

Le prime incisioni delle Goldberg furono quelle memorabili della mitica Wanda Landowska del 1933 e del 1945, eseguite al clavicembalo; nel 1954 accadde l’impensabile, che un pianista-fenomeno (quel Glenn Gould che personalmente ritengo essere più il prodotto di un sofisticato marketing discografico che un autentico musicista), dotato di una tecnica straordinaria, dimostrò che potevano essere eseguite anche su un moderno pianoforte e da allora, poco a poco, entrarono nel repertorio dei grandi pianisti. Per anni furono solo i più grandi a cimentarsi poi – con il progredire della tecnica insegnata nelle scuole di pianoforte – sono state affrontate da un numero sempre crescente di concertisti e da qualche anno a questa parte si ascoltano sempre più spesso. A Milano le hanno suonate recentemente – solo per citare i più noti – Andras Schiff, Andrea Bacchetti, Bruno Canino, Ramin Bahrami, Monica Leone.

Dicevo all’inizio che i capolavori musicali hanno poco a che fare con le circostanze che li hanno fatti nascere; una volta venuti alla luce vivono e crescono di vita propria. Se Bach potesse ascoltare oggi le sue Variazioni, così come vengono eseguite su un pianoforte gran coda, non potrebbe riconoscerle. Perso quel carattere “tecnico” di esercitazione mentale e fisica, sono diventate un compendio di emozioni e di sentimenti, una specie di romanzo il cui protagonista (il “tema”) racconta ciò che gli accade in una giornata o in un anno, non importa, ma con il filo conduttore che segna sempre la vita di una persona; eccitazione, depressione, ansia, paura, felicità, innamoramenti, speranze e delusioni, ogni variazione dipinge uno stato d’animo, momenti diversi di una storia che si dipana nel tempo e nello spazio intorno a un individuo, sempre lui, il “tema”. Fino a quando, esausto, dopo aver provato tante emozioni e sviluppati tanti pensieri, il “tema” ritorna in sé e si ripresenta per quello che è, spoglio di ogni mascheramento, come a dire “credevate mi fossi perso ma sono qui, ancora lo stesso, solo un po’ più maturo, ora mi conosco meglio”. E’ il viaggio di Ulisse, la catarsi della Commedia dantesca, il percorso di Faust. Così un grande musicista, alla fine delle trenta Variazioni, ripete l’Aria iniziale dandole un significato affatto diverso, dolente, trasudante nostalgia e malinconia.

Il romanzo che oggi viene raccontato dalle Goldberg, e che le rende così gradevoli, amabili, sognanti, non ha dunque più nulla a che spartire con quella cabala fatta di variazioni alternate per uno e due manuali, di canoni che si succedono con rigore matematico (alla seconda, alla terza, alla quarta, ecc. fino alla nona), intervallati da fughette, ouverture, ecc. fino a quel giocoso “quodlibet” appartenente al lessico famigliare della grande casa del Kantor, e che precede il toccante ritorno dell’Aria con cui l’opera si conclude.

Ebbene, tutto questo l’ho raccontato per dire che lunedì scorso, nella chiesa di S. Francesco di Paola in via Manzoni, nell’improbabile orario pomeridiano delle 16, il Festival MI.TO. ha proposto una esecuzione delle Goldberg affidata al clavicembalo di Onofrio Della Rosa, un pianista/organista/clavicembalista con una lunga militanza come continuista, accompagnatore pianistico e pianista di sala. Peggio di così non poteva andare. Hanno sbagliato non solo l’orario (riservando di fatto l’evento a studenti e pensionati) ma anche la “location” (è una musica da salotto, non da chiesa, tantomeno una chiesa da controriforma come quella di via Manzoni), lo strumento (particolarmente afono in un ambiente così vasto), e soprattutto l’interprete che ne dato una lettura scolastica e pedante, senz’anima e senza convinzione, persino imprecisa, e tanto noiosa da sentire il bisogno – nella seconda parte – di saltare qualche ritornello per accorciarne i tempi … E Ulisse? Dante? Faust? Solo note, una dopo l’altra, senza capo né coda.

Caro MI.TO, va bene voler essere “evento sostenibile“, voler avere “responsabilità socio-culturale, responsabilità economica, responsabilità ambientale” e chi più ne ha più ne metta (così recitano le locandine!), ma non vi sembra irresponsabile sbagliare clamorosamente un concerto che – in un qualsiasi altro festival musicale minimamente rispettabile – sarebbe stato considerato il momento più significativo, più solenne, più prezioso di tutta la rassegna?

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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