3 settembre 2014

musica – BACH AL FESTIVAL DI EDIMBURGO


BACH AL FESTIVAL DI EDIMBURGO

Con l’ultima nota pre-estiva ci eravamo spostati a Roma per occuparci delle disavventure di quel Teatro dell’Opera e di una magnifica pianista che con un colpo d’ala gli ha salvato la faccia; con la nota di oggi, di ripresa dopo le Feriae Augusti, ripartiamo ancora lontani da Milano – dove ci sta aspettando MI.TO – e andiamo a Edimburgo dove, come tutti i mesi di Agosto, un Festival Internazionale di Musica, Teatro e Danza sconvolge la città trasformandola in un unico grande palcoscenico sul quale accade di tutto: le strade piene di vita, di allegria, ragazzi che parlano tutte le lingue possibili e immaginabili, centinaia di spettacoli e spettacolini, concerti e rappresentazioni, mimi e clown, cantastorie e funamboli, per non dire delle numerosissime rievocazioni e allusioni relative alle leggende della città esoterica e misteriosa di epoca vittoriana e degli oscuri tempi che la precedettero. Un divertente e vitale irediddio.

musica29FBMa oltre a questo bailamme detto “Fringe” (che è un po’ come dire il nostro fuorisalone, rispetto al Salone del Mobile, elevato all’ennesima potenza) vi è il Festival ufficiale che riempie teatri, auditorium, chiese, sale e locali di ogni genere e tipo, con un programma stampato in carta patinata e distribuito ovunque con grande liberalità che prevede opere liriche, concerti e pièce teatrali per tutti i gusti, ma anche dibattiti, seminari, tavole rotonde e chi più ne ha più ne metta. La qualità è molto variegata ma nell’insieme piuttosto elevata: cito solo per esempio alcuni solisti, orchestre e direttori di fama internazionale che tutti conosciamo molto bene come Lars Vogt, Paul Lewis, sir Andrew Davis, Ute Lemper, Vladimir Jurowski, John Axelrod, Andras Schiff, Gianandrea Noseda, il Quartetto Arditti, l’Hilliard Ensemble, e tanti altri compreso il grande tenore Ian Bostridge accompagnato come sempre Julius Dreake.

È in questa ammoina che abbiamo scoperto un concerto veramente speciale, non solo per il livello e la notorietà degli esecutori ma anche per il programma e soprattutto per la sua collocazione nel contesto appena descritto. Nella più bella sala della città, la Usher Hall (famosa per la sua acustica perfetta nonostante i suoi 2.300 comodissimi posti a sedere), il più celebre ensemble bachiano del mondo – il Collegium Vocale Gent diretto dal suo fondatore Philippe Herreweghe – eseguiva la più monumentale delle musiche sacre scritte dal grande Johann Sebastian: la Messa in si minore per soli, doppio coro e orchestra. Ve lo sareste mai aspettato? Io no, e infatti mi sono precipitato ad ascoltare.

Ed ecco i motivi per cui ne parlo in questa rubrica.

Siamo da tempo avvezzi a districarci fra opposte interpretazioni/esecuzioni – “filologiche” o “moderne” – della musica cosiddetta barocca, con polemiche senza fine che divennero apicali qualche anno fa ai tempi dell’integrale delle Cantate di Bach promossa dalla Società del Quartetto; allora i giudizi non furono mai netti, si capivano le ragioni degli uni e degli altri e forse anche le letture storiche con strumenti d’epoca erano meno radicali di quella ora ascoltata in Scozia. In questa occasione invece, forse per il feroce contrasto con la contemporaneità di tutto quanto accadeva intorno, forse perché Herreweghe ha ritenuto che, trovandosi di fronte a un pubblico che ha nel proprio DNA il suono antico e le nenie gaeliche delle cornamuse, poteva abbandonarsi senza remore alla piattezza della esecuzione ritenuta storica, la Messa di Bach è stata la più noiosa e pedante di quante sia mai capitato di ascoltare.

Probabilmente ha influito anche il fatto (spiacevole, che noi conosciamo bene, ma in questo caso amplificato a dismisura) che il pubblico aveva un’età media molto elevata, che i giovani si contavano con le dita di una mano, e che il direttore ha interpretato questa situazione come idonea alla sopportazione e alla pazienza degli ascoltatori, fatto sta che dalla Messa sono scomparsi quei contrasti, quelle contraddizioni e quelle urticazioni con cui Bach racconta e commenta il dramma della liturgia cristiana sostituiti da un cantico nostalgico, amorevole e mieloso assolutamente incongruo ai testi evangelici.

Le Messe venivano ascoltate come commento musicale al rito che si svolgeva sull’altare, con i suoni che provenivano dalle terga degli ascoltatori, e dunque è vero o verosimile che a Lipsia, nella chiesa di San Tommaso, la Messa domenicale di Bach, specialmente nelle grandi occasioni, venisse eseguita sottotono per non sovrastare l’ufficio religioso. Ma quando quella stessa musica viene eseguita due secoli più tardi sul palco di una sala da concerto e per un pubblico che prescinde da ogni interesse religioso e non deve fare altro che concentrarsi su di essa per ascoltarla, capirla, goderla, va da sé che essa si trasformi in soggetto autonomo di rappresentazione e fonte unica di emozioni e di vibrazioni senza le quali perde di senso, si affloscia e si immiserisce. Herreweghe pensa che con le voci esili e frenate, e con gli strumenti afoni di una volta, l’ascolto diventi più rigoroso, intellettuale, concettuale; in realtà è solo più noioso, e siccome i suoi musicisti sono di una precisione e di una raffinatezza senza pari, ascoltarli è come viaggiare su una Ferrari con il freno a mano tirato.

La musica non è archeologia, è piuttosto architettura, e deve non solo evocare antiche magnificenze da tracce e reperti ma anche riproporsi ogni volta come nuova sorprendendo l’ascoltatore e rivelandogli atmosfere e mondi ogni volta ancora sconosciuti; altrimenti a che servirebbe passare un’intera vita ad ascoltare lo stesso repertorio se non per provare ogni volta nuove emozioni e per essere sempre colti di sorpresa dalla modernità dei grandi capolavori del passato?

Mi permetta di ricordarle, caro e bravo Philippe Herreweghe, che Bach amava molto scrivere musica “pura” (pensi solo al Clavicembalo ben temperato, all’Offerta Musicale, ai Concerti non solo Branderburghesi, alle Goldberg, alle Suite e via di seguito) mentre scriveva musica “sacra” più per dovere di ufficio – obbligato dal contratto leonino con il Comune di Lipsia che malgrado tutto lui ha sempre onorato con grandi capolavori! – che per il proprio piacere; e dunque questa ossessiva ricerca storica sulle originali prassi esecutive bachiane – che sicuramente è utile, preziosa e anche necessaria in un contesto accademico e di studio o in una rassegna specializzata – non è per nulla d’obbligo in concerto in una grande sala, nel contesto di una intera città allegramente in festa. Anche per questo, forse, lei si è ritrovato con un pubblico di ottantenni venuto come me ad ascoltarla in omaggio alla sua fama di grande musicista e alla celebrità dell’opera che proponeva ma che si è chiesto perché lei l’abbia così crudelmente fustigato e gli abbia negato il sano godimento di una bella festa musicale.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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