25 settembre 2013

musica


FRAGILI ARMONIE

Non vorrei in alcun modo interferire con la bella rubrica sul Cinema che in questo giornale è curata dai bravissimi Anonimi Milanesi, ma dal mio limitato angolo visuale – quello sulla musica “classica” – non posso non commentare il film di Yaron Zilberman, “Una fragile armonia“, appena uscito nelle sale italiane benché abbia già un anno di vita, per la strettissima relazione che ha con gli aspetti più profondi dell’esecuzione, dell’interpretazione, della esegesi musicale.

musica_32 Il titolo originale “A late quartet” dice qualche cosa di più del titolo italiano circa i contenuti del film che è incentrato su un momento drammatico nella storia di un famoso quartetto d’archi, sui complessi e delicati rapporti che legano la vita professionale dei suoi componenti a quella privata, e soprattutto sui rapporti fra gli interpreti e la Musica (con la M maiuscola).

Ho avuto la fortuna di avere come compagno di escursioni in montagna un grande musicista, Johannes Zenker, purtroppo scomparso qualche anno fa in età avanzata, che per tutta la vita ha ricoperto il ruolo di primo violino, prima nella Sächsische Staatskapelle Dresden e poi nei Berliner Philharmoniker. E ricordo le infinite discussioni sul significato della musica che ascoltavamo, o che più spesso canticchiavamo camminando, che si concludevano regolarmente con una bella espressione di Johannes: “si dica quel che si vuole, alla fine musica vincet semper“. Ecco, il film spiega perfettamente il significato di quella espressione.

Lungi da me raccontare o commentare il film, mi hanno molto colpito i quattro diversissimi personaggi che dedicano venticinque anni della loro vita – e tutte le loro energie fisiche e mentali – alla musica e al loro quartetto d’archi, fino al giorno in cui nelle loro vite private accade qualcosa che interferisce con il loro equilibrato rapporto professionale e artistico; tutto viene improvvisamente travolto e sembra irrimediabilmente crollare ma – appunto – musica vincet semper e poco a poco si riannodano i fili.

Il film ha un tessuto musicale di straordinario fascino, costituito dal penultimo dei Quartetti di Beethoven, la meravigliosa opera 131 in do diesis minore, assoluto capolavoro del genio di Bonn nella musica da camera, che Quirino Principe definisce “Quartetto-fantasia” per la grande libertà formale con la quale è stato concepito: non vi sono più i quattro tempi classici (veloce-lento-scherzo-allegro) ma i tempi diventano sette con l’obbligo di non introdurre pause fra l’uno e l’altro e sorprendentemente il primo tempo, anziché un Allegro, è un “Adagio ma non troppo e molto espressivo”.

L’incipit di questo Adagio è di una intensità così dolorosa che obbliga gli esecutori a una immedesimazione e una concentrazione che va oltre ogni limite: la sordità, la solitudine, il sentirsi incompreso da quella umanità cui crede aver dato tanto, forse anche il sentire l’avvicinarsi della fine della vita, tutto ciò esprime Beethoven nelle prime quattro note della fuga iniziale (la compagine nel film si chiama non casualmente “The fugue quartet“) sulle quali i musicisti devono lavorare con accanimento, ossessionati dall’obbligo morale di non tradire l’Autore.

Dal punto di vista musicale il film ruota dunque quasi interamente intorno a questo capolavoro beethoveniano e bisogna dare atto al compositore newyorchese Angelo Badalamenti di aver curato la colonna sonora del film in modo stupefacente; le osservazioni che si scambiano fra loro i musicisti, gli insegnamenti che elargiscono ai loro allievi, le difficoltà che incontrano questi ultimi, in poche parole ogni scena del film converge a illustrare la complessità della tecnica, la problematicità dell’interpretazione, la necessità della perfezione del fraseggio. E, a dispetto di ciò che si potrebbe immaginare, tutto viene raccontato all’interno di una storia che non ha nulla di pedagogico, che tiene avvinti gli spettatori in una trama piena di passioni e di emozioni; i sentimenti che per venticinque anni sono stati repressi nei protagonisti per servire la musica al più alto livello possibile, che prendono il sopravvento in modo improvviso e imprevedibile (o forse no, forse più prevedibile di quanto appaia), che alla fine si riassopiscono perché … la musica vince sempre.

Un film da vedere e rivedere anche solo per ascoltare, capire, godere Beethoven e soprattutto per rendersi conto del sacrificio di sé e delle straordinarie capacità che servono per raggiungere i grandi livelli interpretativi che talvolta abbiamo la fortuna di incontrare.

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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