11 settembre 2013

musica


BEETHOVEN A 100 ALL’ORA

Suggeriamo ai nostri lettori di cliccare su questo link: http://wimp.com/amazingpianist/ e di dedicare pochissimi minuti a vedere e ascoltare il grande Murray Perahia che esegue il terzo tempo della Sonata n. 14 in do diesis minore – opera 27 n. 2 – di Beethoven, comunemente indicata come “Sonata al chiaro di luna”. Scopriranno così quanto sono importanti i tempi nella musica – assai più di quanto si crede – e quanto è pericoloso esagerare con la velocità.

Non si può certo negare al pianista newyorkese – ben conosciuto in Italia per tanti magnifici concerti – non solo una tecnica invidiabile, ma anche una grande sensibilità e una consolidata capacità interpretativa. Eppure in questo pezzo sembra cadere nel più classico degli errori, quello di far emergere la velocità al di sopra di ogni altro aspetto della partitura. Con il risultato di perdere per strada finezza, emozione, sentimenti e soprattutto di far scomparire quel singhiozzo – o quel sussulto, come di un pianto trattenuto – che conclude una delle più appassionate Sonate beethoveniane.

È vero, il tempo è un “Presto agitato”, che segue il magico “Adagio sostenuto” del primo tempo e lo “Allegretto” con Trio in re bemolle maggiore del secondo (un tempo che evoca il minuetto senza esserlo, perché Beethoven in questa composizione non vuole alcun accenno alla galanteria settecentesca) e dunque deve essere un tempo veloce; ma la Sonata è del 1801 e in quegli anni la tecnica – sia quella intrinseca dello strumento che quella propria dell’esecutore – non permetteva queste velocità, e dunque Beethoven non poteva immaginarlo così; inoltre un Presto, benché agitato, è diverso da un Prestissimo come per esempio quello della prima Sonata (l’opera 2 n. 1 in fa minore). La “agitazione” è un moto dell’animo che deve trovare intima consapevolezza. A quella velocità la consapevolezza si perde e prendono il sopravvento il virtuosismo e il tecnicismo che assomigliano molto all’esibizionismo.

* * *

Perahia non è però il solo a trattar male il povero “Chiaro di luna”; un altro è Andras Schiff il quale ha deciso tempo fa che bisogna prendere alla lettera Beethoven il quale, riferendosi all’Adagio Sostenuto, scrive testualmente che “si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordino”. Il sordino oggi si chiama smorzo e suonare senza sordino significa tenere il pedale incessantemente abbassato; Schiff esegue pervicacemente tutto l’Adagio senza mai alzare il pedale, creando così un’atmosfera sonora di grandissima confusione, straniante, tutto l’opposto di quel “delicatissimamente” voluto da Beethoven.

Ci siamo già chiesti perché lo faccia, essendo lui un coltissimo musicista, e temiamo che sia una sorta di vezzo, un gesto di originalità per segnalare fino a che punto egli intenda essere fedele al testo; ma la fedeltà è un’altra cosa, è soprattutto fedeltà alle intenzioni e agli obiettivi dell’autore. Se il manoscritto contenesse un palese errore di scrittura, l’interprete non sarebbe tenuto a rispettarlo ma avrebbe il dovere di correggerlo …

* * *

Pur sembrandoci ovvio che il musicista non debba limitarsi a essere il mero esecutore della partitura ma debba esserne anche l’interprete, dunque con il diritto – se non anche il dovere – di proporne nuove letture, riteniamo ci sia un limite, quello del rispettare i caratteri fondamentali dell’opera. Questa è un’epoca in cui ci si sente in diritto di ambientare un’opera lirica dell’ottocento in un campo di concentrazione nazista e di rappresentare Lohengrin come un giovanotto in piena crisi depressiva; così capita che il povero Beethoven sia strapazzato perfino dai più grandi interpreti, terrorizzati dal rischio di apparir banali.

I grandi interpreti, proprio perché grandi, dovrebbero rendersi conto che il pubblico li applaude suggestionato dalla loro fama ma poco a poco finisce per disamorarsi della musica.

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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