20 febbraio 2024

VOGLIA DI DESTRA

Gli choc del cambiamento gonfiano le vele agli “imprenditori della paura”


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Monta l’onda di destra. In Italia e nel mondo. Simboli e gesti condannati per sempre alla damnatio memoriae rinascono a nuova vita. Corre la mente al secolo scorso e ci si chiede quanto come allora e quanto di diverso.

Come allora, prima che un orientamento politico, si raggruma un diffuso sentimento pre ed antipolitico, coagulo ancora informe ma ribollente di umori, rabbia, livore, frustrazione. Cresce  il disagio incubato a lungo nel grande oceano del non detto, confinato ai margini del dibattito pubblico. Incompatibile con il “politically correct”, trova ora le sue parole nel linguaggio che propone della destra destra, e con i numeri anche la legittimazione per dirle. Disagio, rancore, impotenza, hanno accompagnato un processo pluridecennale di distacco di larga parte dei popoli dalla politica e dalle istituzioni democratiche in Europa ed in America: outsider o underdog (Meloni dixit) trovano margini di manovra impensabili fino a ieri. Ci si illudeva che la grande crisi finanziaria del 2008 fosse passata senza danni, ma ora tutti vedono “la mucca nel corridoio” (Bersani, 2016).

Trovate le “parole per dirlo”, disponibili le sponde ideologiche e politiche, la disillusione esce dallo stato di torpore inerte, e si rende disponibile ad attivarsi con la proposta di una destra parafascista che esce dal recinto dove era (stata) emarginata dal ‘45. Come nel primo novecento, si presenta in rivolta contro l’establishment, contro le classi dirigenti e le sue istituzioni, gioco facile se il campo democratico stenta a ritrovare o innovare parole che diano senso ed indirizzo democratico alla domanda sociale. Ora come allora, una destra, diversa da quella istituzionale prevalente (allora formata da nobili e liberali, oggi establishment transnazionale), rompe (sembra) con i poteri dominanti, con le ideologie “estero vestite”, con i “poteri forti” del tempo e lancia la sua sfida. Possiamo ben leggere le parole che danno nomi nuovi al paradigma del primo ‘900: BCE, Europa parassita, sovranismo, padroni a casa nostra, negazionismo storico ed ambientale, individualismo feroce ed armato. Poi domani chissà, anche voglia di menare le mani.

Sappiamo come finì allora. Fatto il lavoro sporco, la “rivoluzione sociale” (Programma di San Sepolcro del 1919), andò a patti con il re prima ed il vaticano poco dopo, svelando il reale contenuto classista della sua natura. ma “tutto doveva cambiare perché non cambiasse nulla”. Qualcuno, e giustamente, potrebbe anche dire che oggi le forze di destra – destra partecipano al gioco elettorale e prendono il potere attraverso l’ordinario processo democratico, contando sullo straordinario consenso popolare (Meloni, e Wilders, Trump e Mellei, Kaczyński ed Orban). Vero, anche se altri potrebbero rispondere “tempo al tempo”, che nel 2021 già Trump ha sperimentato l’avventura insurrezionale, prima tappa di un percorso che deve ancora svolgersi del tutto.

Per amor di verità, e restando alle cose italiane, bisogna riconoscere che su questo aspetto Fratelli d’Italia,  a parte alcuni inaccettabili richiami identitari, non ha dato segnali equivoci. Finora. Tuttavia, oltre a questa, altra appare la questione più rilevante. La domanda di fondo che ci si dovrebbe porre è: come accade e perché oggi tanta parte del popolo, e quale, si trova in maggior sintonia con la destra xenofoba, parafascista, negazionista, antifemminista? Dove e come sono maturati questi atteggiamenti, queste visioni del mondo e di sé, tanto distanti dal pensiero comune da trovare nei neonazisti di ADF proposte più vicine alle aspettative? Un pensiero comune tanto indiscutibile da far dire al povero Fukuyama che, sotto il cielo eterno e luminoso del liberalismo democratico, la “storia era finita”.

Ma “la fine delle ideologie” ha spianato la strada alle nuove ideologie di destra. Disagio, paura, rancore, rabbia. Ma dove, come e perché sono nati, sotto l’impulso di quali forze ed in quali condizioni?  E poi, fino a che punto giustificati?

Le analisi sociologiche concordano. Chi guarda a destra è più bianco che “colorato”, più anziano che giovane, più povero che ricco, più operaio che dirigente, più maschio che femmina, più di bassa cultura che alta.. Con le cautele che questa ipersemplificazione porta con sé, il profilo dell’elettore che guarda a destra sembra concentrarsi su persone, ceti e classi, che hanno subito i maggiori danni dalla globalizzazione e dalle liberalizzazioni negli anni passati. O che temono di subirne.

Gente che tira le somme di questi ultimi decenni e trova pochi argomenti per dare  buoni voti alla governance che ha guidato e guida i paesi nelle democrazie europee ed americane: l’operaio senza lavoro e precarizzato dalle ondate innovative, il povero in competizione con l’immigrato più povero ancora, l’anziano traumatizzato dalla scomparsa del paesaggio sociale e relazionale dove era vissuto, l’agricoltore schiacciato da regole che addebitano solo a lui i costi della transizione ecologica, il giovane cui viene sottratto con il presente anche il futuro.  Il cambiamento globale fa paura a chi ha pochi strumenti e risorse, o si trova attardato su schemi culturali inidonei a reggere le trasformazione culturali più profonde, come il maschio spaventato dalla rivoluzione di genere, in difficoltà nel confrontarsi con il desiderio non più sopprimibile di parità ed autonomia.

Le tante onde locali delle destre nazionali trovano la spinta principale nello tsunami di lunga portata della globalizzazione e dell’innovazione non governate, lasciate correre senza briglia, dove l’assenza di “lacci” in realtà allude e si trasfigura in assenza di legami sociali, inconsapevolezza della strettissima maglia di interconnessioni che ci lega tutti. Né bisogna essere Baumann per sapere e capire come il nostro clima sociale e culturale discioglie in un indistinto brodo regressivo di monadi isolate le identità comuni, le relazioni interpersonali e sociali, il senso di comunità, il concetto stesso di bene comune, lasciandoci sì padroni a casa, con Netflix e Glovo, ma disperatamente soli e schiacciati.

La “società liquida” è levatrice della società della paura e questo timore non colpisce tanto i popoli giovani che solo ora si affacciano, con istituzioni traballanti ma forti aspettative, sulla scena della globalizzazione, quanto quelli che si erano costruite società, con tutti i limiti e le contraddizioni, dotate di senso, coese socialmente, e garanti di sufficienti condizioni di vita. Le società del welfare state, degli stati nazionali, dove capitale e stato avevano trovato, dopo due guerre mondiali e non gratis, punti di equilibrio, di connessione e convivenza, dove la minaccia comunista e la forza delle socialdemocrazie si sommavano nel ridurre l’aggressività del capitalismo.

Rotti gli equilibri del “secolo breve”, la globalizzazione consente al capitale di muoversi fulmineo lungo le reti telematiche verso i luoghi più profittevoli, ma alle persone questa “libertà” è negata e neppure appare desiderabile. O meglio, le persone che possono cogliere le opportunità su scala globale appartengono a ristrettissimi ceti privilegiati, sempre più ricchi anche per questo. Le società “occidentali” si sono infragilite e si sono aperte larghe linee di faglia, tra chi resta sul territorio e subisce cambiamenti non governati e chi surfeggia sulla cresta delle sue onde globali.

Con l’onda nera, cresce anche l’allarme che chiama alla mobilitazione antifascista. Le manifestazioni sono necessarie, vanno sostenute, partecipate e guardate con grande simpatia, ma non basteranno se le forze democratiche non troveranno visioni aggiornate ed adeguate a modellare su diversi paradigmi i processi globali dell’economia, dell’innovazione, della comunicazione, del cambiamento culturale e di quello climatico, e soprattutto gli scenari inquietanti che avanzano. Intelligenza artificiale, manipolazione genetica della natura e dei corpi, iperconcentrazione dell’informazione.

Le prossime elezioni europee daranno la misura dello spostamento del consenso a destra, della pericolosità della situazione, imponendo alle forze democratiche di trovare i modi e le formule per sottrarci ad un assetto davvero indesiderabile. Ben vengano allora resipiscenze e schemi di collaborazione adeguati ad impedire questo scenario, ma si può dubitare che una formula tattica solo difensiva potrà davvero fare fronte ad una domanda di protezione tanto profonda. Serve una nuova elaborazione, serve un nuovo paradigma socio culturale, servono nuove parole.

Giuseppe Ucciero



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  1. Cesare MocchiSuggerisco la lettura di quanto scrive Sahra Wagenknecht sulla sinistra neoliberale (o "alla moda" come dice lei). Se a Milano la cosiddetta sinistra è uguale ad Albertini, prima o poi il suo ceto di riferimento si rivolgerà altrove, è inevitabile (e anche non difficile da capire)
    21 febbraio 2024 • 20:45Rispondi
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