19 marzo 2024

RESPONSABILITÀ IN BILICO TRA BUROCRATI E POLITICI

Una rilettura delle leggi Bassanini


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L’equilibrio, in termini di competenze e responsabilità, tra il braccio tecnico-burocratico e la testa politico-elettiva dell’amministrazione pubblica segna, non solo a Milano, un momento critico. Torna allora utile riflettere, ad un quarto di secolo dall’entrata in vigore, sulle leggi Bassanini citate, spesso con superficiali spunti polemici, come causa della difficoltà di funzionamento del vigente sistema dei poteri locali.

Il problema sta nell’origine: nella seconda metà degli anni ’90 si era consumato un drastico cambio di classe politica. Soprattutto nei livelli di base ed intermedi erano saltati i meccanismi di formazione e selezione dapprima svolta dai Partiti storici, ora ridotti a fluttuanti contenitori di incarichi e cariche sotto il manto della modernità post-ideologica.

Del resto le carte in tavola erano già state cambiate nel ’93. Prima sindaco e assessori erano votati dal consiglio comunale, unico organo eletto direttamente con sistema proporzionale puro (metodo D’Hondt). Ma se fino ad allora i gruppi consiliari rispondevano ai partiti di riferimento, con la dissoluzione di questi ultimi era divenuto pressoché impossibile formare maggioranze affidabili.

Arrivò pertanto legge 81/1993 “elezione diretta del sindaco” (governo Amato uno, maggioranza Dc-Psi-Psdi-Pli), tuttavia con tre correttivi: durata dei mandati di quattro anni, dimezzamento delle giunte, limite del doppio mandato. I primi due sono saltati quasi subito, il terzo è tuttora a rischio!

Evidentemente il combinato disposto di questi dati  (sfacelo dei partiti strutturati e avvento di una leva politica raccogliticcia) non poteva che portare ad effetti perversi, tanto da indurre le velleità riformiste del primo governo Prodi a  porvi rimedio. Toccò pertanto al ministro della funzione pubblica Franco Bassanini (socialista atipico, all’epoca fautore non acritico del sistema pubblico) il compito di cambiare l’impianto funzionale nelle nuove condizioni.

Nacquero pertanto (1997-98) le leggi  che portano il suo nome (per altro già parzialmente anticipate con il decreto 29/1993 “razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche” varato dalla maggioranza sopracitata) con un effetto nondimeno distorto: la burocrazia si affrettò a studiarle e memorizzarle, non senza interessi “pro domo sua” ad occupare le nuove facoltà e competenze. La politica invece le lesse a stento, ricavandone più che altro l’alleggerimento dei propri compiti amministrativi per dedicarsi più e meglio alle relazioni mediatiche ed alla cura dell’immagine.

L’applicazione pertanto avvenne fin da subito in modo parziale e deformato, con invasioni di campo e deleghe improprie, riscontrando generalmente l’indebolimento della funzione politica, il cui baricentro intanto si spostava dal Consiglio, organo formalmente democratico, alla figura monocratica del Sindaco.

Proviamo allora a richiamare, in estrema sintesi, i principi ispiratori delle leggi originarie; in particolare del decreto sulla “riorganizzazione del pubblico impiego”, di cui allego in nota un mio commento d’epoca (*):

passare da una cultura amministrativa fondata sulla perfezione formale delle procedure e degli atti, ma insensibile ai contenuti, ad una prassi che (in un quadro di autocontrollo di legittimità) fosse “orientata al risultato”.

  • considerare il “fattore tempo” come organico al procedimento (superando la “lentocrazia”, così definita da Massimo Severo Giannini),
  • transitare da un’organizzazione basata sul modello gerarchico-militare ad una rete di responsabilità autonome ma interconnesse,
  • assimilare lo status del dipendente pubblico ai diritti e doveri del settore privato, evitando o limitando la scorciatoia delle esternalizzazioni,
  • superare l’assetto dicasteriale degli “assessorati” attraverso la collegialità della Giunta,
  • riaffermare la centralità dei poteri di regolamentazione e programmazione generale, indirizzo politico e controllo di merito del Consiglio Comunale rispetto al quella esecutiva, pertanto teoricamente subordinata, del Sindaco.

Oggi, con la saggezza del poi, possiamo misurare come dai principi si è passati agli effetti: vedi l’incertezza dei ruoli e l’imbarazzo delle responsabilità nella gestione dei nodi sensibili della macchina comunale. La  debolezza della politica (confusione normativa e vuoto d’indirizzi), di cui gli apparati si sono per una lunga fase avvantaggiati, gli si ritorce contro; stretti nella tenaglia tra quel che resta dell’autorità dello Stato e la pressione di aggressivi interessi privati.

E’ la cosa pubblica nel suo insieme che risulta ridotta ad un “vaso di coccio” su un carro traballante. Occorrerebbe il coraggio di una seria svolta, sulla base dei fondamenti costituzionali originali, che però “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”!

Valentino Ballabio

(*)  Note e osservazioni sul D.Lgs. 80 del 31/3/98

https://arcoresiste.minlab.org/note.html

 



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  1. Andrea VitaliMi sembra però che non venga trattato il vero "elefante nella stanza" della questione: e cioè il ruolo dei dirigenti comunali. Che non solo sono inamovibili e potentissimi, ma anche super incompetenti e super ignoranti (basta leggere certe delibere...). Sono cioè in parte figli del vecchio sistema, scelti con metodi poco trasparenti, per cooptazione e vassallaggio più che altro; ma da quel momento in poi inattaccabili e temuti dallo stesso sistema politico, che sta ben attento a non dargli addosso perché sa bene che se li avesse contro si bloccherebbe ogni attività amministrativa. Da qui la forte continuità (peraltro gradita anche dagli operatori privati, con cui si creano legami), anche a prescindere dai cambiamenti di colore politico dei governanti (se si pensa che l' attuale sindaco era il direttore generale della Moratti, amministrazione peraltro non molto efficiente in verità, e che ha nominato assessore un dirigente nominato tale da Albertini... si è detto tutto), continuità che certo permette di portare a termine le buone pratiche, ma anche rende a nascondere sotto il tappeto i passati errori (ben più frequenti). Ma se i dirigenti fossero nominati con criteri meritocratici, con concorsi seri, aperti... Be' sarebbe un metodo anche quello. Ma invece non è così: spesso i concorsi manco si fanno, e se si fanno sono finti, nel senso che si sa già chi è il vincitore. È una classe di mediocri che perpetua sé stessa, questo è il punto. E non c'è nessun interesse da parte della classe politica ad affrontare il toro per le corna, perché oramai vivono in simbiosi (alle spalle dei cittadini, però).
    21 marzo 2024 • 07:56Rispondi
    • Cesare MocchiIn poche parole, la classe politica ha rinunciato alle sua prerogative per affidarle a burocrati poco competenti e che nessuno ha eletto. Bell'affare!
      21 marzo 2024 • 11:00
  2. Targetti UgoCaro Valentino le leggi di riforma che hai sapientemente ricordato hanno modificato la distribuzione dei poteri all’interno dell’istituzione “Comune”. Il Consiglio comunale, con l’elezione diretta del sindaco, ha perso l’originaria centralità. Dovrebbe però mantenere il potere di indirizzare l’azione amministrativa. Al Consiglio pertanto spetta di approvare gli atti strategici, per esempio il bilancio e la pianificazione urbanistica. La rilevanze del ruolo del Consiglio dipende molto da come la maggioranza intende il rapporto tra sindaco /Giunta e Consiglio, da come si esercitano di fatto i rispettivi ruoli e come è organizzata la macchina amministrativa per sostenere i ruoli concordati. Se il Sindaco (Giunta) predispone in sostanziale autonomia gli atti fino alla formulazione formale definitiva, che richiede spesso grande impegno di risorse e tempo, il Consiglio non può che ratificarli a meno di sfiduciare il Sindaco. Il Consiglio dovrebbe essere coinvolto fin dall’inizio nella formazione delle decisioni di sua competenza, avendo a disposizione anche gli strumenti istruttori, come personale e tecnici a disposizione dei consiglieri. I Consiglieri dovrebbero essere gli interlocutori tra elettori e amministrazione e i partiti dovrebbero organizzare e rendere concreto tale rapporto. In realtà il rapporto tra cittadini e amministrazione è demandato al solo sindaco e talvolta gli assessori (non eletti ma nominati dal Sindaco). Si pone di conseguenza la questione di come si formano le liste dei candidati al Consiglio comunale. Perché gli elettori dovrebbero essere interessati a votare dei consiglieri se questi non hanno poteri e con questi non hanno rapporti? Non so come si svolga in concreto il rapporto tra Consiglio, Sindaco e amministrazione a Milano. In passato il Consiglio ha approvato documenti di indirizzo (San Siro, PGT, ecc.) ma mi pare che ciò non avvenga in modo strutturato. Un esempio. Ho chiesto ad un amico consigliere se fosse informato sulla proposta del gruppo immobiliare Nhood di costruire nuovi edifici (grattacieli?) sulle Ferrovie nord. Informatosi presso l’assessore ha saputo che è in corso un tavolo tecnico tra Comune, Regione e operatore per discuterne. Ora aprire un tavolo tecnico su un ‘operazione urbanistica rilevantissima (a mio avviso folle) in variante al PGT è già una scelta di indirizzo che dovrebbe essere di competenza del Consiglio che da quanto sembra non ne è neppure al corrente.
    22 marzo 2024 • 12:05Rispondi
  3. valentino ballabioCaro Ugo purtroppo è così. Ma siamo da capo: il Consiglio per essere in grado di esprimere linee e indirizzi efficaci dovrebbe avere alle spalle, attraverso i gruppi, partiti politici autorevoli e rappresentativi di idee e interessi definiti. Se invece i partiti si riducono a “comitati elettorali” intenti ad occupare, all'ombra del Sindaco-principe, posti da vassallo nelle giunte e valvassore nei consigli (poi ci sono i valvassini nei Municipi!) il rapporto tra carica monocratica e organo democratico si rovescia. Certamente tu mi permetti di citare Togliatti (riportato da Luciano Canfora) che in un discorso alla Costituente definì i partiti come “la democrazia che si organizza”. Infatti senza partiti veri la democrazia si smarrisce...
    22 marzo 2024 • 18:34Rispondi
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