8 marzo 2022

LA GUERRA E IL PNRR

Considerazione sulla qualità degli investimenti


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Al momento dello scrivere, nulla è possibile sapere sugli impatti politici ed economici di questa guerra criminale, di un dittatore che ha teorizzato che la democrazia liberale era un male per i popoli (oddio, lo aveva detto anche un papa).

Tuttavia con prudenza qualcosa di solido lo si può affermare. Iniziamo dalla situazione in cui l’Italia si trova da più di due decenni, che possiamo definire “di base”.

Siamo un paese ricco (abbiamo l’ottavo PIL del mondo, più della Russia e di tutta l’Africa), che tuttavia non cresce, e che ha un debito pubblico record (150% del PIL). Questo ultimo fatto non è gravissimo in sé se crescessimo (il parametro critico è il suo rapporto con il PIL).

Ed è proprio la mancata crescita che ha reso recessivi gli impatti di rientro dal debito che ci hanno imposto prima i mercati e poi solo come conseguenza i vincoli europei (anche se ai nostri sovranisti piace sostenere il contrario). Infatti il rientro graduale dall’eccesso di debito pubblico non ha impatti recessivi di rilievo se vi è una crescita adeguata (e gli interessi da pagare sono bassi). Quindi il ruolo della spesa pubblica, che ha continuato a crescere dopo che vent’anni fa il PIL è cresciuto pochissimo, non è la causa prima dei nostri problemi: senza questa spesa saremmo probabilmente cresciuti ancor meno.

Il PNRR (meglio, il NextGenEU) è stato un evento epocale di solidarietà europea con due distinti obiettivi: rimettere in moto la nostra crescita e contrastare i cambiamenti climatici. Già qui incominciano i problemi: non sempre i due obiettivi si muovono nella stessa direzione, e il Piano italiano è parso da subito essere afflitto da genericità (si vedano in particolare gli articoli di Boeri e Perotti su “Repubblica”, e di A. Penati su “Domani”). Un secondo problema è risultato in buona misura esogeno al Piano, e imprevisto: l’inflazione mondiale, provocata dal combinarsi di eccezionali livelli di spasa pubblica in USA e in Europa, e da una serie di strozzature sul versante dell’offerta, presa di sorpresa da una domanda superiore al previsto e da problemi di produzione (energia, semiconduttori, alcune materie prime). L’inflazione è un animale pericoloso: è difficile da abbattere una volta partito, erode molti redditi in modo iniquo e poco prevedibile, e postula “cure” che rallentano la crescita (aumentare i tassi di interesse).

In questo quadro, che aveva iniziato già nei mesi scorsi a mostrare lunghe ombre, Putin scatena una guerra europea, che accelera l’inflazione e spaventa i mercati.

A questo punto non si può non ricordare che tra i paesi industriali l’Italia è ambientalmente già virtuosa, che comunque il suo peso sulle emissioni totali è molto piccolo e destinato a decrescere, e che la crescita economica è di per sé un generatore di risorse che possono anche essere indirizzate a fini ambientali: infatti quanto più altri bisogni sociali primari sono soddisfatti, tanto più tende a crescere la disponibilità, anche culturale, ad affrontare i problemi ambientali. Si ricorda che la coscienza ambientale è nata agli inizi del secolo scorso (con la fondazione del celebre “Sierra Club”) nello stato più ricco della nazione più ricca del mondo, la California.

Allora forse l’ago della bilancia dei due obiettivi europei per l’Italia, il paese più indebitato d’Europa e il maggior percettore di quelle risorse, potrebbe spostarsi un po’ verso la crescita economica.

Comunque per entrambi gli obiettivi sembra necessario un rigore molto superiore a quello attuale, data la crescente criticità dell’uso dei fondi europei. 

Per l’ambiente in particolare sembrano mancare due verifiche quantitative interconnesse e assolutamente essenziali: innanzitutto una rigorosa quantificazione, da misurarsi annualmente, della decrescita dei gas climalteranti emessi (GHG, soprattutto CO2). Ma la seconda quantificazione, del tutto assente nel PNRR, è forse ancora più importante: una analisi comparata dei costi unitari di abbattimento. Abbattere le emissioni costa, chiunque paghi, pubblico o privato che sia, altrimenti ci penserebbero i meccanismi di mercato. E se costa, e non si abbatte là dove costa meno abbattere, a parità di risorse si abbatte di meno, cioè si danneggia l’ambiente. Per esempio, in alcuni settori già pesantemente tassati, abbattere costa moltissimo: se un inquinatore è tassato, da subito abbatte dove gli costa meno, e quindi si trova poi ad avere costi di abbattimento alti e crescenti (per esempio nei trasporti si è già abbattuto molto). Altri settori molto inquinanti hanno invece un peso fiscale ridotto (per esempio, le industrie energivore: siderurgia, cemento, vetro, piastrelle). Altri settori inquinanti sono addirittura sussidiati, come l’agricoltura. Ovvio che occorrerebbe iniziare da questi ultimi, ma ancora più ovvio che è indispensabile conoscere bene i costi, anche sociali, di abbattimento, per sviluppare nel tempo strategie efficienti. 

Per la crescita, il discorso è più complesso, perché alcune quantificazioni sono relativamente semplici (la redditività degli investimenti, per esempio), mentre per una serie di riforme gli strumenti sono molto più incerti.

Ma se prendiamo ad esempio la voce più consistente degli investimenti fisici, quelli in infrastrutture (soprattutto ferroviarie), purtroppo c’è ben poco da sperare nella qualità complessiva degli investimenti nei diversi settori.

Per le infrastrutture ferroviarie sono previsti in tutto 62 miliardi di Euro, di cui 25 nel PNRR e 37 da reperire successivamente. Tra le molte infrastrutture, quelle ferroviarie sono le uniche totalmente a carico dello Stato, in parte anche nella fase di esercizio. La redditività finanziaria è nulla, quindi non genereranno risorse per investimenti successivi. I progetti (faraonici) sono stati presentati prima di qualsiasi analisi specifica che ne dimostrasse almeno la redditività socioeconomica. Le analisi che adesso stanno uscendo sono state fatte dalle ferrovie stesse, in evidente conflitto di interessi, e dicono dei “Si’” entusiastici a progetti con modestissima domanda. Il più costoso (l’Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria) costa 22 miliardi e farà risparmiare circa mezz’ora di tempo rispetto alla linea esistente. Abbatterà le emissioni di CO2, ma con un costo unitario di abbattimento pari a 5 volte il massimo previsto come efficiente dalla Commissione Europea.

Ma in termini di consenso politico piace moltissimo.

Come si è detto, se dobbiamo derivare da qui la serietà e l’efficacia media degli investimenti per la crescita del PNRR stiamo freschi davvero…(nonostante l’effetto serra).

Marco Ponti

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