19 aprile 2022

CASA DELLA CULTURA

76 anni di eterodossia


Progetto senza titolo

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Sono passati 76 anni dal 16 aprile 1946, quando Ferruccio Parri pronunciò il discorso di inaugurazione della Casa della Cultura. Quella sera prendeva vita un progetto ambizioso, pensato durante la clandestinità da Antonio Banfi, Eugenio Curiel, Elio Vittorini. I tre studiosi avevano pensato a un centro di confronto dell’alta cultura, per l’appunto la Casa della Cultura, a una rivista di politica culturale, “Il Politecnico” e a una struttura per la diffusione culturale a livello di massa, “il Fronte della Cultura”. Quest’ultimo ebbe vita breve e stentata. Di breve durata ma di straordinaria intensità fu invece la vicenda de “Il Politecnico”: per due anni e più raccolse e interpretò gli umori culturali della Milano post resistenziale.  Esso si spense dopo un ruvido scontro con gli uomini che dirigevano il PCI: in quell’occasione entrarono in urto due visioni diverse dell’organizzazione della vita culturale. Solo la Casa della Cultura riuscì a proiettare la sua esistenza oltre la stagione dell’immediato dopoguerra.

Essa dovette affrontare tanti problemi: sfrattata da Mario Scelba dalla prestigiosa sede, proprio dietro la Scala, che le avevano assegnato i partigiani, essa dovette trovare un’altra sede e ridefinire la propria identità. Nel 1951 in via Borgogna nacque di fatto una “nuova Casa della Cultura”. Le persone che la dirigevano, il filosofo Antonio Banfi e l’allora giovanissima Rossana Rossanda, ebbero l’accortezza e l’intelligenza di mantenere alcuni tratti distintivi dell’impostazione originaria: apertura, indagine a tutto campo, autonomia spinta fino alla ricerca e al gusto dell’eterodossia. Il pensiero di riferimento era il razionalismo critico banfiano e i protagonisti di quegli anni furono i grandi allievi di Banfi, i vari Paci, Preti, Cantoni, Anceschi, Formaggio, la famosa “scuola di Milano”.  Si delineò così un centro culturale che gravitava nell’orbita del PCI, ma conduceva vita rigorosamente autonoma. Rossanda gestì con straordinaria intelligenza quella stagione, con scelte coraggiose e anticipatrici: nel direttivo della “nuova” Casa della Cultura i comunisti erano in minoranza rispetto ai laici e ai socialisti. Al punto che nel 1956, nel mezzo di vicende incandescenti e spartiacque, la Casa della Cultura divenne il punto di riferimento di chi nel mondo della cultura progressista non accettava la logica dell’invasione dell’Ungheria e cercava nuove strade politiche e culturali.

Fu in quegli anni che la Casa della Cultura assunse quel profilo border line da cui non si è più scostata. Essa riuscì così a intercettare negli anni Ottanta le suggestioni del pensiero della complessità e la prepotente spinta verso un nuovo liberalismo. E nell’ultimo ventennio è riuscita a diventare il punto di riferimento, non solo milanese, di una ricerca ostinata di un nuovo pensiero critico. 

Proprio mentre nella società si diffondeva una potente spinta omologante verso il “pensiero unico” neoliberale, il centro culturale di via Borgogna si impegna nella ricostruzione di una “enciclopedia critica della contemporaneità”. Salvatore Veca, presidente nell’ultimo decennio, ne ha delineato gli obiettivi con la suggestiva proposta dell’“illuminismo per tutti”. Accompagnando di fatto la Casa della Cultura in uno sforzo assiduo di ricerca e ricostruzione di una nuova cultura politica della sinistra.

Ecco, in estrema sintesi, le ragioni della sorprendente durata della Casa della Cultura: tanti altri centri culturali a Milano e in Italia hanno chiuso i battenti, chi prima e chi dopo. E’ restato in vita il più inquieto e il più eterodosso, quello che non si è mai sottratto alle sfide dei tempi nuovi. 

Compresa l’ultima sfida, forse la più insidiosa. La rivoluzione tecnologica sta cambiando lo scenario del dibattito pubblico: la partecipazione dal vivo si sta progressivamente svuotando e sta letteralmente traslocando nella Rete e sui social. Il processo era già evidente quattro o cinque anni fa: la pandemia del Covid, con i lock down e il distanziamento sociale, lo hanno accelerato e perfino drammatizzato. Per due anni gli incontri pubblici sono letteralmente evaporati. 

A questo ciclone tecnologico si può resistere solo riprogettando con coraggio tutte le modalità del proprio funzionamento. Ecco allora lo sforzo di ripensarsi come un ambiente digitale, come un centro che ha il suo cuore pulsante in via Borgogna ma che si proietta in Rete e che mette a disposizione dei frequentatori dei social tutta la sua produzione. Si è trattato di una vera e propria scommessa: essa però si è rivelata la mossa vincente che ha permesso alla Casa della Cultura di passare indenne attraverso la bufera del Covid, senza perdere neppure un giorno di programmazione.

Oggi la Casa della Cultura vive in doppia modalità: dal vivo, in via Borgogna, ma anche sui social, sul sito, su YouTube, su Facebook. Migliaia di persone seguono ogni singolo incontro tramite il loro PC o il loro telefonino. Non sono più solo milanesi. Sono cittadini amanti della cultura, alla ricerca di fonti del pensiero critico, sparsi in tutta Italia. Assieme a tutti loro la Casa della Cultura sta riprogettandosi per l’ennesima volta.

Ferruccio Capelli – Direttore della Casa della Cultura

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