17 aprile 2021
UN PIANO DI STRUTTURA PER L’AREA METROPOLITANA
Dove va l’urbanistica milanese
17 aprile 2021
Dove va l’urbanistica milanese
In quel «vasto insieme di politiche e di prassi» che costituiscono l’urbanistica certamente il “piano” costituisce solo uno degli strumenti di azione cui affidare gli esiti del processo di costruzione della città.
Una troppo spinta fiducia nel solo atto della pianificazione ha portato in passato ad una sostanziale sottovalutazione degli aspetti gestionali che seguono alle scelte urbanistiche. Tali aspetti non sono riconducibili ai soli problemi normativi e attuativi del piano, ma in “politiche d’intervento” capaci di suscitare indirizzi e orientamenti all’assetto insediativo, sia operando alla grande scala, come ad esempio con le infrastrutture di trasporto e alla correlata localizzazione delle grandi funzioni urbane, sia alla piccola scala, attraverso la “cura” dovuta al paesaggio urbano, sia nelle aree centrali che nei quartieri più esterni.
La legislazione urbanistica negli ultimi trent’anni ha segnato una discontinuità rispetto a quella precedente; piuttosto che contare su piani sempre più evoluti e complessi, riflette un diverso modo del fare urbanistico che, almeno negli assunti, mette al centro il progetto architettonico e urbano.
Una nuova centralità, quella del progetto, che non può smarcarsi dagli aspetti di coerenza con le strategie di sviluppo urbano e di più ampia scala.
Com’è noto, ad influire su questo orientamento hanno concorso diversi elementi, riconducibili più che ad una “visione” di un quadro macrourbanistico, alla necessità:
Ma, in positivo, sono venuti a maturazione i limiti messi in evidenza da un apparato critico che si è andato sviluppando fin dagli anni Sessanta, che veniva ad interessare la concezione, forgiatasi entro la cornice del Movimento Moderno, che in Italia, come in Germania o in Francia, poneva in posizione centrale nell’urbanistica la produzione del “piano”, avendo in comune le logiche dello zoning e degli standard urbanistici, e una visione delle scelte territoriali che “a cascata” facevano derivare i piani attuativi dai piani territoriali e dai piani regolatori comunali.
Già a metà degli anni Sessanta era in atto in Gran Bretagna una revisione del pensiero urbanistico, cui non erano estranei studi come quello di Stuard Chapin e del suo Urban Land Use Planning, che portò all’approvazione della nuova legge urbanistica inglese del 1968 che, in luogo di piani rigidi e dettagliati, introduceva «piani di struttura» finalizzati a dare le linee di indirizzo strategico e generale alla pianificazione, affidata nell’attuazione e nel dettaglio del disegno urbano a strumenti di maggiore flessibilità e alla compartecipazione tra operatori pubblici e privati.
Vanificato in Italia, in quanto risolto solo nell’onerosità della concessione, il tentativo di operare una separazione della proprietà dei suoli dallo jus aedificandi, come strada capace di trovare un tavolo di confronto finalizzato a contemperare le esigenze dell’operatore privato e quelle del decisore pubblico, venne a soccorso di un diverso e innovativo modo di procedere l’istituto dell’Accordo di Programma.
Funzionale a quella cultura urbanistica che aveva privilegiato la “politica degli interventi”, l’istituto in questione è introdotto non da una legge urbanistica ma da una legge di riforma degli enti locali; la legge 8 giugno 1990, n. 142, che all’articolo 27, prevede l’istituto dell’Accordo di Programma che, sulla base di una soluzione progettuale approvata all’unanimità tra le parti istituzionalmente responsabili e direttamente interessate, se in difformità con le previsioni di piano, si configura come variante dello strumento urbanistico vigente.
In questo contesto, insieme alla positiva compartecipazione alle scelte, venivano in chiaro le esigenze conflittuali tra i diversi livelli di governo (Regioni, Province, Comuni), Aziende statali e Società concessionarie, Ministeri, portatori tutti di “interessi” legittimi che, avendo come obiettivo la realizzazione di un’opera, obbligavano a individuare un progetto capace di ottimizzare le aspettative di ognuno.
Ma quel che interessa di più sotto il profilo urbanistico è che, sulle scelte progettuali, dovevano confrontarsi “simultaneamente” questioni di scala macrourbanistica, finalizzate a dare risposta alle esigenze di grande scala e problemi di scala microurbanistica, legati alle scelte territoriali di carattere locale, in rapporto dialettico con scenari configurati o ipotizzabili di programmazione, riconoscendo il diritto di contribuire al processo decisionale a tutti i soggetti istituzionali implicati nelle scelte.
In questo orizzonte, a prevalere non è la “cultura del piano”, ma la “cultura del progetto”, cioè la capacità di trovare, entro un quadro di riferimento socio-economico storicamente dato, la “soluzione giusta”.
L’estensione all’uso urbanistico dell’Accordo di Programma ha un chiaro sviluppo con la legge 17 febbraio 1992, n. 179, che regolando i Programmi Integrati di Intervento, prevede che esso possa essere proposto non solo da soggetti pubblici ma anche da soggetti privati, che possono intervenire sia su parti del territorio comunale già, in tutto o in parte, edificate, sia su aree da destinare a nuova edificazione, con la finalità di riqualificarle sia sotto il profilo urbanistico, che sotto quello ambientale.
È con l’approvazione della legge 12 aprile 1999, n. 9, che ha disciplinano i Programmi Integrati di Intervento, che la Regione Lombardia, dando attuazione all’articolo 16 della legge nazionale 179/92, ha introdotto nella sua legislazione un “nuovo strumento di programmazione territoriale” (così definito dalla sentenza n. 393 del 1992 della Corte Costituzionale), in grado di superare, nell’ambito della riqualificazione urbanistica, il tradizionale criterio di formazione del piano regolatore generale.
Pur agendo nel solo ambito della riqualificazione urbanistica, la legge 9/99 dava ai soggetti privati la possibilità di proporre programmi di intervento in Variante al PRG anche su aree non contigue, edificate in tutto o in parte, su aree libere intercluse e su aree individuate come aree a standard non acquisite dall’Amministrazione e per le quali erano decaduti i vincoli espropriativi; consentiva, inoltre ai proponenti il PII, in luogo della cessione di aree, di impegnarsi a realizzare direttamente le «infrastrutture e i servizi di interesse generale» e di gestirli a condizioni convenzionate.
Il tutto era tuttavia subordinato al rispetto di un quadro generale di coerenza che l’Amministrazione doveva darsi e che serviva come “griglia di valutazione” per l’ammissibilità o meno dei progetti.
Nel giugno del 2000, in applicazione della legge regionale 9 del 1999, Milano ha ottemperato a questo dettato con l’approvazione del “Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, che superava la rigidità del Piano Regolatore e metteva al centro il progetto architettonico e urbano indicando le strategie di sviluppo della città, cui i PII dovevano adeguarsi in fase di verifica.
Questo documento, pubblicato sotto il titolo “Ricostruire la Grande Milano”, era un vero e proprio “Piano di struttura” in quanto assoggettava la flessibilità progettuale al rispetto di un impianto strategico che conteneva gli elementi strutturali irrinunciabili dell’Amministrazione quali la localizzazione delle grandi funzioni urbane (sanitarie, universitarie, di ricerca scientifica e tecnologica), la politica delle infrastrutture di mobilità (in primis quelle ferroviarie) deputate ad uno sviluppo ordinato della tendenza insediativa nella città e nell’area metropolitana, la promozione di un’edilizia sociale capace di dare risposta al ceto medio, con edilizia convenzionata e agevolata, e ai ceti meno abbienti, con edilizia sovvenzionata.
Gli anni che sono seguiti hanno visto sorgere, e cito solo i tre più significativi, CityLife sul polo storico della Fiera, Porta Nuova che si trascinava da quarant’anni senza esito, il Portello sulle aree dell’Alfa Romeo.
Tre interventi di rigenerazione urbana, diversamente giudicabili, che hanno cambiato il volto della città e la cui esperienza merita una attenta riflessione in funzione della gestione prossima futura, ma già oggi incombente, di tanti piani che avanzano, dalle aree dismesse degli scali ferroviari a quelle dello stadio di San Siro.
In questi, come in altri, è stata sì attuata la flessibilità concessa ai grandi operatori che hanno guardato al mercato immobiliare, ma l’Amministrazione non è parsa in grado di far valere le ragioni del Piano di struttura, che pure si era dato; ragioni decisive per lo sviluppo di un’area metropolitana, che a buon diritto aspira ad essere nodo del network delle città mondiali, insieme perseguendo “il bene comune” e la capacità di dare risposta ai bisogni reali di ampi strati della popolazione.
Per contro si è assistito e si rischia di continuare a perseguire una “pratica debole” ed “enunciati forti”:
In questa stagione mutata strutturalmente dalla pandemia, occorre riaprire la questione urbanistica non per ritornare alla rigidità del piano ma per tornare a definire, nella partecipazione, la strategia sul futuro attendibile di una Milano vista non come Municipio ma come polo centrale di una vasta area metropolitana, per superare la diseguale dotazione di servizi e di funzioni nobili e di opportunità per quanti, nel loro insieme, vi abitano.
La ridefinizione dello sviluppo della città nel recupero degli Scali ferroviari dismessi offre una grande occasione per la prossima amministrazione.
Occorrerà ri-contrattualizzare le funzioni da insediare, la dotazione di edilizia sociale e, soprattutto, trattandosi di FS, gli investimenti necessari a dotare la città e la sua area metropolitana di un moderno trasporto rapido di massa sostenuto:
Solo a partire da un assetto strutturale chiaro negli indirizzi e coerente negli investimenti, è possibile dare corpo alla Città Metropolitana, magari dai contorni più coerenti con il sistema delle relazioni esistenti di quella prefigurata dalla Legge Delrio, con un proprio consiglio e un proprio sindaco eletto.
Una indagine su un campione rappresentativo della popolazione di Milano e della Città metropolitana, effettuata nel febbraio di quest’anno, realizzata dalla Makno di Mario Abis per il Centro Studi Grande Milano sulla trasformazione di sentimenti, comportamenti, relazioni, abitudini, atteggiamenti nella convivenza con la pandemia da coronavirus, ha evidenziato che per gli intervistati due sono i fattori necessari alla ripresa economica e sociale di Milano: la cultura, come valore e come sistema, individuato dall’88% degli intervistati, e la necessità di ripensare il governo della città in chiave di Città Metropolitana, fattore, insospettabilmente, indicato dal 59% degli intervistati.
In questo, più che un intervento di ingegneria istituzionale, serve che i cittadini, in prima persona, si sentano chiamati alla costruzione di un progetto di ampio respiro, adatto a governare una grande città: un Piano di struttura per l’area metropolitana, capace di estendere la propria visione oltre l’ambito della costituita Città Metropolitana.
Solo attraverso un sentimento di partecipazione, unito al riconoscimento della specificità di Milano come centro primario, ma non esclusivo, di un sistema urbano policentrico che affonda le sue radici nella storia economica e sociale, si potrà determinare, sul piano politico e sociale, una svolta positiva, capace di portarci fuori, rincuorati, dal lungo inverno che stiamo attraversando.
Gian Paolo Corda
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