24 aprile 2020

ABBADO E LE SINFONIE DI BEETHOVEN

La musica per questi”arresti domiciliari”


In questi giorni di quarantena generalizzata in cui, fra le tante cose che ci mancano, la musica dal vivo è quella che ad alcuni di noi – me per primo – fa soffrire di più, per non essere sopraffatti dall’astinenza ci vediamo costretti a riprendere in considerazione la musica registrata, quella che avevamo … bandito dalle nostre tavole. Ci aiutano, a dire il vero, le videoregistrazioni (che c’è da sperare non siano taroccate e che, impegnando la vista oltre che l’udito, facilitano la concentrazione nell’ascolto) e dunque ce la caviamo con qualche concerto e qualche opera trasmessa alla televisione, o con qualche chicca pazientemente scoperta gironzolando nel web.

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Ed è appunto smanettando in internet che mi sono imbattuto in un’intervista rilasciata da Claudio Abbado in una data imprecisata collocabile intorno al 2005 in cui, già visibilmente provato dalla malattia, spiega il lavoro da lui fatto negli anni, con i Berliner Philharmoniker e non solo, sulle nove Sinfonie di Beethoven. E’ una intervista senza intervistatore, una via di mezzo fra la chiacchierata e la lezione, che dura poco meno di un quarto d’ora e che trovate su questo link. Credo che possa interessare non poco quanti si chiedono quale sia il vero e più recondito lavoro del direttore d’orchestra e che cosa si intenda per interpretazione delle grandi opere del passato.

Dice Abbado che non c’è limite nel cercare e scoprire “qualcosa di nuovo” nei grandi capolavori della musica e che, ogni volta che li si esegue, sono diversi perché se ne capisce qualcosa di più; e questa, aggiungo io, è anche la ragione per cui non ci stanchiamo mai di ascoltarli. In un altro passaggio, raccontando come queste Sinfonie le abbia “respirate” insieme ai musicisti dei Berliner Philharmoniker, lascia intendere quali siano i rapporti che lui intrattiene con i professori dell’orchestra, rapporti che non hanno nulla a che vedere con il “comandare” (per intenderci alla Toscanini o alla Von Karajan) ma si rifanno al ruolo maieutico del direttore, basato cioè sulla partecipazione attiva di tutti i membri dell’orchestra. Ricordate il suo celebre approccio con i “colleghi” berlinesi – Kein Maestro, ich bin Claudio, nur Claudio! – raccontato nel bel ritratto1 che ne ha fatto Giuseppina Manin nei giorni della sua scomparsa?

Poi tocca il tema, importantissimo, dei “tempi” da adottare nell’esecuzione delle Sinfonie che, come nel finale dell’Ottava, Beethoven vuole più veloci di come per decenni li si è immaginati. Subito dopo fa sentire le prime battute di quell’Allegro vivace e – quand’anche il tempo sia più veloce di quello di una volta – è vivaddio ben lontano dalla frenesia cui spesso arrivano le esecuzioni di oggi. Più interessante ancora è l’analisi del rapporto che intercorre fra i tempi dei diversi movimenti di una Sinfonia, o fra quelli di diverse Sinfonie; c’è fra loro una relazione che, dice Abbado, va indagata, scoperta e rispettata.

Molto attuale, dopo la rivisitazione dei manoscritti originali di Verdi riproposti in questi anni da Riccardo Chailly, è il tema dell’edizione critica dei testi; sostiene Abbado che è più importante tener conto delle prime edizioni, curate o controllate dagli stessi autori, che non degli originali manoscritti. Perché, dice, è bene rispettare le correzioni e i miglioramenti apportati dall’autore dovuti alle riflessioni e agli approfondimenti intervenuti dopo che l’opera è stata eseguita. Il ritorno al manoscritto e alle prime edizioni è tuttavia sempre essenziale perché nel corso dei decenni (nel caso di Beethoven siamo a oltre venti!) accade che tanti interpreti e curatori di successive edizioni, possano aver appesantito l’originale, magari solo per adeguarlo a compagini orchestrali più grandi di quelle usuali o disponibili all’epoca del concepimento.

Infine la notazione relativa all’importanza dei ritornelli, cioè delle ripetizioni di alcune parti dell’opera (ad esempio la “esposizione” nella forma sonata o lo “scherzo” dopo il “trio”) che si è talvolta ritenuto di poter eliminare. Qualcuno li ha considerati inutili o noiosi ma Abbado li difende invece con grande determinazione: eliminarli è come amputare un arto a un corpo umano o demolire una parte dell’architettura di un edificio. Non si può saltare nulla in un’opera senza danneggiarne l’equilibrio e l’armonia, ma soprattutto le ripetizioni non devono essere pedisseque, ognuna deve rivelare una luce diversa, avere uno specifico senso (un’attenzione, questa, spesso trascurata anche da grandi direttori).

La piacevolezza delle parole di Abbado nasce dalla semplicità del linguaggio e dalla pacatezza del ragionamento. Una bella lezione per gli amanti della musica che vogliono apprezzare un direttore non tanto per i gesti – che pure possono essere molto importanti se e in quanto riescano a “raccontare” la musica – quanto dai risultati, da ciò che quei gesti riescono a produrre in termini di chiarezza e di “senso” dell’opera. A proposito del quale, alla fine dell’intervista, Claudio Abbado s’infervora chiarendo il “senso” del movimento finale, l’Allegro con brio, della Settima Sinfonia ed è difficile immaginare un’interpretazione più “alta” e ispirata di quel meraviglioso capolavoro beethoveniano.

Paolo Viola

1 “Nel Giardino della Musica”, Guanda, 2015



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  1. andrearicercare e commentare brani musicali immortalati nel web tu lo consideri attività da recluso, di infimo interesse rispetto all’ascolto dal vivo. eppure tieni conto che una tua recensione ad un’esecuzione dal vivo potrà essere compresa e condivisa massimo da qualche centinaio di persone (gli spettatori dell’evento e qualcuno in più); commentare un’esecuzione presente su Youtube potrebbe fare piacere a migliaia di lettori, tutti quelli che, guidati da te, potrebbero seguire insieme l’esecuzione ed il tuo commento!! pensaci.
    29 aprile 2020 • 16:13Rispondi
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