21 febbraio 2020

VERDE METROPOLITANO. MODELLO DI AZIONE NON UTOPICA

Spazio aperto, vivo, vegetale, non degradato per salvare la metropoli


PER COMINCIARE: Il verde strutturale dell’urbanistica, questo è quello che sostiene Lodovico Meneghetti, un urbanista di lunga lena che non si sottrae alle polemiche di questi tempi.

meneghetti

Siamo ancora di fronte al problema vantato e quasi subito tradito dall’Expo. Proponiamo in extrema ratio e in modo semplificato a confronto di prove complesse condotte (anche nella scuola) dopo l’epoca dei Pim (Piani intercomunali milanesi) un modello di azione in grado fermare come una diga la materia che continua a colare sulla residua terra milanese. Il territorio in causa è sempre quello dei 133 comuni attorno alla città centrale, il circondario, l’hinterland.

Assumiamo di nuovo l’ambito della corona circolare attorno alla città, benché oggi presenti come l’estrazione di un molare, il pezzo sottratto dalla provincia di Monza-Brianza.

Semi-corona settentrionale: conosciamo bene come la condizione storica, contrassegnata da agricoltura povera su terreni asciutti e, anche per questo, da primevo industrialismo poi da accumulo industriale «moderno» accompagnato da un fitto sistema infrastrutturale, non abbia ammesso alcuna difesa dal sovvertimento degli anni Cinquanta e Sessanta, dalle ulteriori espansioni e dagli incessanti tumulti edificatori pervasivi, magari complici gli enti pubblici e compiacenti urbanisti meri professionisti.

Qui, lo sanno anche gli scolari che non possono camminare per andare a scuola da soli, è il mondo del più spiaccicato quasi impenetrabile sprawl. Non è immaginabile il rilancio di un’agricoltura per un’effettiva produzione. Fino a qualche anno fa ritrovammo lacerti di terra ancora irrigata, all’estremo est verso l’Adda, modesti residui aziendali non completamente degradati, tuttavia dal destino segnato.

Se esistesse una probabilità di ripresa agraria, varrebbe a custodire un piccolo esempio di paesaggio storico contrapposto alla devastazione dell’ambiente, da qualsiasi causa sia stata provocata. Nella quasi totalità della conurbazione la terra libera è poca, spezzettata e malformata (se così possiamo dire). Dobbiamo contare su alcune aree, dove la vecchia coltivazione ridotta a gerbido non può rinascere e su numerosi interstizi fra le edificazioni e le infrastrutture, specie fra i confini irriconoscibili d’insediamenti dotati degli antichi nomi municipali.

Il principio di piantumare alberi quanto più sia possibile sembra risvegliarsi da un sonno secolare delle istituzioni se non del popolo milanese. Il Comune, di cui è nota la tradizionale debolezza e trascuratezza del settore parchi giardini et similia, ora esibisce una mappa del territorio comunale con l’ubicazione delle piante. Sarebbero oltre 400.000? Pare una previsione invece di uno stato attuale, peraltro largamente inficiato dai tagli radicali raccontati come obbligo a causa dei lavori della metropolitana, dell’acquedotto, del teleriscaldamento, del metano e così via, un affastellamento privo di un chiaro programma.

E i tagli proditori? Non riusciamo a tener dietro a tutti, per ogni dove, così l’opinione pubblica fa caso solo ai più incredibili, come lo sterminio arboreo in uno dei più belli e utili dei giardini, quello del Politecnico in via Bassini destinato alla costruzione di un nuovo padiglione, ramo «scienza» (leggi Eugenio Galli, 10 febbraio). Guarda che caso, proprio mentre preme il trasferimento delle facoltà scientifiche di Città Studi nell’orribile territorio abbandonato dall’Expo, cui corrisponderà la distruzione di un quartiere universitario e residenziale vivente da quasi cent’anni per sostituirvi un’accozzaglia di edilizia a cubatura incontrollata, coerente in pieno con la linea politico-amministrativa propensa a buttar via qualità per garantire quantità «equa» di rendita fondiaria ai potenti immobiliaristi.

Torniamo al nostro sprawl. Il programma è una politica del grande verde alberato per gli spazi privati e pubblici. Costruiamo l’architettura di un bosco partendo da piccoli gruppi di piante nelle aree ridotte a gerbido in angoli dimenticati, proseguiamo l’impianto in tutte le superfici interstiziali libere anche se molto strette, inseriamolo poi capillarmente nell’edificato più o meno aggregato dei comuni, soprattutto come filari di strade o terreni lineari poveri ma talvolta erbosi.

Essendo difficile se non impossibile progettare la crescita in senso naturalistico da piante pioniere secondo proposta degli agronomi, dobbiamo puntare su un disegno geometrico a griglia (geometrico non vuol dire solo figure ad angoli retti) o a linee a diversi andamenti. Sarebbero benvenuti dappertutto alberi come quelli resistenti e belli di Milano, ossia platani, ippocastani, bagolari, aceri… Quanti? Non possiamo conoscere il totale esatto degli spazi disponibili. Ad ogni modo calcoliamo la possibilità di una piantumazione di cinquecento unità per ettaro di terra nuda e una ogni quattro metri nei filari. È plausibile un obiettivo di un milione? Un intervento in verità non di vasta portata ma unica probabilità di riscatto del territorio in causa. Sarebbe interessata una superficie complessiva di circa duemila ettari in una miriade di episodi, ma realmente o idealmente collegabili mediante una trama che cerca di invadere anche i vuoti minimi, come un corso d’acqua che si spande e si divide in piccoli rii inarrestabili.

Per il territorio della semi-corona meridionale valga l’analisi e la proposta di cui all’articolo citato. Ne rafforziamo le raccomandazioni. Occorre proteggere e ampliare il parco agricolo sud, opponendolo ai tentativi di erosione e addirittura di distruzione come venne dagli insediamenti di capannoni e edifici commerciali a Lacchiarella, Sesto Ulteriano, Assago et al. già nominati. Il modello vuol riscoprire e rilanciare qui un’architettura proveniente dalla vocazione umana alla lavorazione della terra conformemente alle risorse naturali o reperite e ai fondamenti strutturali definiti nei rapporti sociali di produzione (aziende capitalistiche o a conduzione diretta su fondo di misura adeguata) Cos’era una marcita dagli undici sfalci annuali se non un eccezionale esempio di architettura del suolo e dell’acqua? Vuol dire sostegno delle aziende (ammesso che intanto non siano sparite) che assicurino produzione e produttività, restauro degli spazi agrari, partecipazione dell’agricoltura alla vita della metropoli: che così conserva una parte importante della propria conformazione storica policentrica indispensabile alla sua stessa vita. È lo spazio aperto, vivo, vegetale, non degradato che può impedire la morte della metropoli.

La condizione descritta dall’economista statunitense Henry George centotrentacinque anni fa si è aggravata enormemente e rappresenta la nostra separazione dal paesaggio naturale o umanizzato (citiamo a memoria): «le numerose popolazioni di queste grandi città sono del tutto frustrate dei gradevoli influssi della natura. La maggior parte di esse non riesce mai, tra un anno e l’altro, a camminare sulla terra» (ca. 1884).

Lodovico Meneghetti



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  1. Pierfrancesco SacerdotiCaro Lodo, bellissima e condivisibile la tua proposta. Gli alberi, belli in sé, se disposti con criterio possono costruire bellissime architetture vegetali. Penso alle tante strade alberate di Milano, invisibili agli occhi della maggioranza dei milanesi ma apprezzatissime dai visitatori stranieri. Un esempio per tutti via Vincenzo Monti, che offre uno spettacolo maestoso e imponente. Tradizione antica, che viene dai Boschetti e dai Bastioni disegnati dal grande Piermarini. Speriamo che qualcuno dei nostri politici e amministratori mediti sulle tue parole e decida di fare qualcosa...
    27 febbraio 2020 • 19:47Rispondi
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