17 settembre 2019
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A sipario ancora chiuso Il pubblico già rumoreggia
17 settembre 2019
A sipario ancora chiuso Il pubblico già rumoreggia
La domanda che da qualche tempo vado facendomi, e non sono il solo, è sempre la stessa: di chi è Milano? L’ovvia risposta che mi dò è: “Milano è dei milanesi”. Ma su questo evidentemente non siamo tutti d’accordo: qualcuno ritiene che Milano sia più sua e possa dunque disporne a piacere. Succede oramai tutti i giorni: scendono in campo i cosiddetti “poteri forti”, visibili o sotto traccia, e ci se ne rende conto solo quando si cerca davvero di capire come e perché accadano certe cose.
Un principio va comunque ribadito: la capacità edificatoria, in quantità e qualità, è il bene comune di una città ma non è un bene riproducibile e soprattutto appartiene a “tutti” i cittadini.
Sindaco e Giunta dovrebbero porsi questo problema prima che qualcuno alle prossime elezioni arrivi da destra gridando “Milano ai milanesi!”, argomento di facile presa. Bisognerebbe rispondere allora: “lo è già”. A patto che sia vero.
Capire la ragnatela degli interessi in città è difficile: scoprire amicizie, intrecci tra Consigli di amministrazione, partecipazioni incrociate, scambi di poltrone tra Consigli e organi di controllo, consulenze legali milionarie, intrecci tra politica e affari, finanziamenti pubblici che alla fine sono a vantaggio di privati, insomma tutto quello che va sotto la voce “les affaires sont les affaires”.
Certa è l’asimmetria dei poteri: i poteri forti sono più forti là dove il pubblico è più debole e il pubblico in generale è per sua natura comunque debole perché la sua spina dorsale, la classe politica, è fragile, per incompetenza e anche per motivi poco nobili.
Non divaghiamo sugli scenari e veniamo al punto: l’affare Meazza e “nuovo stadio del calcio”. Ne abbiamo già ampiamente parlato il 23 luglio scorso con i nostri sei articoli oltre l’editoriale e ritroviamo tutti gli stessi argomenti nelle recenti e probabilmente future pagine di cronaca cittadina dei quotidiani.
Non siamo così ingenui da non aver capito che dietro la questione “che fare del Meazza?” e l’eventuale costruzione del nuovo stadio si muove un mondo sconfinato di interessi e anche solo farne il perimetro è quasi impossibile: si va dai bagarini ai grandi interessi immobiliari passando attraverso i diritti televisivi, le grandi marche di articoli sportivi e gli intrecci tra politica e “curve”.
Prima di chiedere ai cittadini, come pare si voglia, un parere o un giudizio, il Comune, proprietario del Meazza e delle aree destinate al futuro stadio, dovrebbe dire che cosa diavolo succede se si lasciano le cose così come stanno oggi.
Il Meazza perde l’agibilità? Non si possono più disputare le partite? La Lega Calcio declassa lo stadio? La sicurezza è insufficiente? Da quando? Ce ne siamo accorti solo adesso? Abbiamo senza saperlo il “ponte Morandi “ degli stadi?
Insomma perché bisogna fare qualcosa?
Senza queste risposte, chiare, ragionevoli e argomentate restiamo inesorabilmente confinati nell’opaco regno del “les affaires sont le affaires” e chiudiamola lì. Ma affari per chi? Questo è il problema.
Le squadre milanesi – Milan e Inter – sono delle S.p.A. di diritto privato e dunque andrebbero trattate per quello che sono: un operatore economico come tanti altri il cui ruolo in città però è un po’ particolare perché il tifo fa battere il cuore di molti, genera consenso a chi lo sostiene ed è ampiamente sfruttato dalla violenza e dall’odio, sentimenti oggi in pericolosissima crescita.
Le due squadre e le tifoserie vogliono, a somiglianza di quel che succede in altri Paesi, il loro “tempio”? Uno stadio tutto loro?
Desiderio legittimo ma, se per coronare questo desiderio, strumentalizzato dalle società che possiedono le squadre per far pareggiare i loro conti, e per farlo si debbono travolgere le norme urbanistiche in virtù della cosiddette “legge Stadi”, per consentire destinazioni d’uso non previste dai Piani di Governo del Territorio vigenti e approvate, allora questo non va fatto.
C’è però un fondamentale paletto per utilizzare come si pensa la cosiddetta legge Stadi: la dichiarazione di prevalente interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 del d. lg.vo n. 42/04. Non è questo il luogo per illustrare e disquisire in materia, ma questa norma esiste.
Ma se ci dovesse essere realmente un prevalente interesse chi dovrebbe dichiararlo, con quali procedure ma sopratutto con quali argomenti?
La eventuale cessione delle aree da parte del Comune chi la decide? Con quali procedure?
Non vorremmo assistere alle solite contorsioni interpretative di leggi e regolamenti, contorsioni inutili a mascherare come foglie di fico quelle che sono scelte politiche .
Molti altri paletti costellano il percorso di questa nuova vicenda milanese che si inquadra a pieno titolo nell’atmosfera di assedio che sta subendo la città da parte di interessi economici e immobiliari sia locali sia da tutto il mondo. Milano “tira” e basta sentire il polso dei grandi studi di architettura e delle società di ingegneria per capire che non è un’onda ma uno tsunami. Che cosa resta quando il mare si ritira? Sarà uno tsunami o una bolla?
Cosa resta nelle casse del Comune?
Un’ultima tra le altre innumerevoli considerazioni che si possono e si debbono fare.: il sindaco Sala, nella generale confusione, dice che, se mai un nuovo stadio ci dovesse essere, il giudizio sul progetto spetta ai tifosi. Al loro giudizio soltanto affidiamo la scelta di quello che comunque è un “monumento” pubblico della città?
Di pantomime come quella sugli Scali, questione ancora aperta ma per citare la più vistosa, non ne servono altre.
Luca Beltrami Gadola
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