3 luglio 2019

I MASNADIERI DEL GIOVANE VERDI

Un'opera un tempo quasi dimenticata


Fra il 1839 e il 1893, da quando aveva ventisei anni fino agli ottanta, Verdi ha scritto ben 28 opere liriche, ma se si considera che negli ultimi trent’anni di vita ne ha scritto solo quattro – niente di meno che il Don Carlos, l’Aida, l’Otello e il Falstaff – si scopre che fino al 1863 la media è stata di più di un’opera all’anno! Tutto ciò lascia immaginare almeno due cose: che non tutte e ventotto le opere possano essere dei capolavori e che in ogni caso – capolavori o no – non tutte possano essere messe frequentemente in cartellone.

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I Masnadieri è l’undicesima delle sue opere, scritta nel 1847, ed è stata considerata fino ad oggi così poco che è stata allestita alla Scala (alla “sua” Scala!) solo tre volte: nel 1853 (sei anni dopo la prima londinese!), una seconda volta nel 1862 e poi dimenticata per più di un secolo, fino al 1978. Oggi dunque la riascoltiamo dopo altri 41 anni, tanto che non molti la possono ricordare.

Nell’ultima occasione, pur condannata da un impietoso giudizio di Massimo Mila (che nel suo volume “L’arte di Verdi” non l’aveva quasi nominata), l’opera piacque molto agli spettatori della Scala: ebbe 12 repliche e vide sul podio un giovane assistente di Claudio Abbado, tal Riccardo Chailly (non aveva ancora venticinque anni), chiamato all’ultimo momento per sostituire Gianandrea Gavazzeni. Fu il suo primo successo e l’inizio di una assai bella carriera.

Non riesco a capire il giudizio negativo espresso da Mila su un’opera che io ho invece trovato sublime, ricca di magnifici temi e magnificamente orchestrata, piena, senza momenti di stanca (è nel gergo dei compositori…), anzi con una tensione continua e crescente con il crescere dell’intensità del dramma che viene rappresentato. Forse è il libretto che ha infastidito il grande critico musicale, quella riduzione che Andrea Maffei ha fatto per Verdi del dramma di Friedrich Schiller; un testo scritto in una lingua arcaica e pretenziosa che obbliga i cantanti a una dizione e quindi ad una emissione incomprensibile ed il pubblico a scervellarsi sul significato delle parole. Anche la trama risulta a tratti poco chiara, si fatica a capire chi è a favore di chi o contro chi altro, chi è morto e chi ancora vivo, e si comprendono malamente tutti i perché della tragedia finale.

viola-02Capita spesso che all’opera ci si debba accontentare di capire solo l’essenziale, di doversi limitare all’essenza della vicenda, di dover perdere molti particolari per concentrarsi sulla musica. Questo dei Masnadieri è il caso tipico in cui la musica vince su tutto, è lei che racconta, le parole possono anche appartenere a una lingua sconosciuta poiché il racconto sgorga spontaneamente dalle note, dalle voci dei cantanti e dagli strumenti dell’orchestra. In questa occasione, in particolare, splendevano la voce incantevole di Amalia (il soprano americano di origine cubana, Lisette Oropesa, che per amore del canto ha perso 40 chili ed oggi porta in scena una bellissima figura femminile), dei fratelli Carlo (Fabio Sartori, un tenore che dovrebbe prendere esempio da Amalia) e Francesco (il potente baritono Massimo Cavalletti) – i cui archetipi sono rispettivamente Abele e Caino – e del loro anziano padre Massimiliano (il basso Michele Pertusi).

La parte del leone l’ha però fatta l’orchestra; diretta da Michele Mariotti, quarantenne figlio d’arte (il padre Gianfranco è stato il fondatore e per anni sovrintendente del Festival rossiniano di Pesaro), l’orchestra ha dato il meglio di sé. Si intuiva il feeling fra il podio e i leggii, soprattutto si sentiva la passione, la puntigliosa precisione e il contagioso entusiasmo che Mariotti riusciva a trasmettere sia alla buca che al palco. Avrà sicuramente giovato al giovane direttore il sia pur breve matrimonio con un noto soprano russo, che gli avrà insegnato il segreto del respiro dei cantanti, fatto sta che l’intesa con il palcoscenico era perfetta, mentre il suono dell’orchestra era più verdiano che mai, un suono che solo alla Scala si riesce ad ascoltare e a godere.

Un discorso a parte meritano la regìa dello scozzese David McVicar e la scenografia dell’inglese Charles Edwards. Sono stati molto criticati ma mi fa piacere dire che ho invece trovato il loro lavoro di ottima qualità. Bella la scena, unica dall’inizio alla fine, che di atto in atto rovina e si distrugge come se le guerre e le sommosse le arrecassero continui danni; riuscita anche la trasposizione, soprattutto attraverso i costumi, dalla Boemia-Sassonia della prima metà del settecento (così Schiller) alla Francia della Rivoluzione e del Terrore, con i masnadieri che sembravano sanculotti. Geniale mi è parsa anche l’idea di tenere in scena, dall’inizio alla fine, un curioso personaggio muto, una specie di mimo vestito come tutti in divisa napoleonica che, con taccuino in mano, sembrava rappresentare lo scrittore che studia i personaggi per carpirne i sentimenti e i segreti e prende appunti per raccontarne poi la vicenda. Un piccolo coup-de-théâtre, all’ultima scena, fa volare in aria tutti i fogli del taccuino mentre la storia precipita nella tragedia. Peccato solo quell’incorreggibile vezzo di aprire il sipario – e far accadere cose sul palcoscenico – durante l’Ouverture, togliendo così allo spettatore quel raccoglimento e quella concentrazione che sono assolutamente necessari per entrare “musicalmente” nel mood dell’opera. Un’opera che, a dispetto di quanti pensano solo al Verdi dei grandi capolavori della maturità, rende grande merito al Verdi giovanotto appena trentaquattrenne.

Con questi Masnadieri ci si è avviati alla conclusione della stagione milanese che ha visto molte Istituzioni musicali alle prese con nuove governance; dalla Verdi, che non ha ancora sostituito Luigi Corbani con una direzione di ugual peso, alla Società dei Concerti da poco orfana di Antonio Mormone; dalla recente scomparsa di Antonio Magnocavallo – sostituito da Ilaria Borletti Buitoni alla presidenza della Società del Quartetto – alle difficoltà delle Serate Musicali che da tempo non riesce a rinnovare la propria dirigenza; da Milano Classica che fatica a trovare stabilità e finanziamenti ai Pomeriggi Musicali che non riescono a darsi una leadership forte ed autorevole. E così di seguito fino al tema, recentissimo, dell’avvicendamento alla sovrintendenza del Teatro alla Scala. Tutto è in movimento, ma miracolosamente – questa è una delle grandi qualità della città – continuiamo a sentire buona musica e non smettiamo di essere una fra le poche metropoli in cui vengono a suonare e a dirigere i più grandi musicisti del mondo.

Paolo Viola



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