17 maggio 2019

QUANTA MUSICA!

Piano City Milano inonda la città


Nelle tre giornate di Piano City Milano è stata letteralmente inondata di musica; e non solo di pianoforti, che da soli basterebbero a ubriacare la città (quasi 500 concerti in una sessantina di ore, notte e giorno!), ma di ogni altro genere e organico, dalla musica da camera a quella sinfonica, anche perché siamo nel periodo in cui tutte le istituzioni musicali, oltre ai programmi per la prossima stagione, presentano i gioielli della stagione che sta per concludersi.

Viola-3Così è capitato che la Società del Quartetto abbia fatto arrivare dalla Spagna (forse si dovrebbe dire dalla Catalogna) una compagine di altissimo livello come il “Cuarteto Casals” – creato nel 1997 dai fratelli Abel e Arnau Tomàs , violino e violoncello, con Vera Martinez Mehner violino e Jonathan Brown viola – che in vent’anni è stato colmato di premi e di onori. Ed è piacevolissimo dover riconoscere che ancora una volta, dopo le prime apparizioni nel 2006 e nel 2014, hanno incantato il pubblico del Conservatorio con la loro capacità di ascoltarsi e di parlarsi portata a un livello sorprendente.

Il concerto dei Casals è stato la quarta tappa di un ciclo molto intrigante che la Società del Quartetto ha organizzato quest’anno in sei serate, in ciascuna delle quali sono stati accostati uno o più Quartetti di Beethoven a uno o più Quartetti di Béla Bartók; si sono già cimentati in questa bella avventura il Quartetto Jerusalem in gennaio, l’Emerson in marzo, e il nostro Quartetto di Cremona in aprile. Altri due sono in arrivo e saranno svelati il prossimo 20 giugno a palazzo Marino, in occasione della presentazione della prossima stagione della Società.

Nel concerto dell’altra sera i quartettisti spagnoli hanno accostato il primo Quartetto di Béla Bartók (l’opera 7) al quattordicesimo ed ultimo di Beethoven (l’opera 131) riuscendo a mettere a confronto con grande lucidità non solo l’opera di un ragazzo (Bartók aveva 26 anni) con quella di un uomo assai più che maturo (Beethoven ne aveva 56 e l’anno dopo sarebbe scomparso), ma soprattutto due momenti tanto distanti fra loro (gli ottant’anni che passano fra il 1826 e 1907, grossomodo dagli albori al tramonto del romanticismo) quanto legati da approcci assolutamente congeniali.

Lo struggente Lento del primo movimento dell’opera 7 di Bartók si è misurato con il dolcissimo Molto cantabile del quarto movimento dell’opera 131 di Beethoven, così come il passionale Allegro vivace dell’ultimo movimento di Bartók si è specchiato nell’esuberante Allegro molto vivace del secondo movimento beethoveniano; un confronto pieno di sorprese e di emozioni. Se poi si pensa che gli ultimi Quartetti sono, insieme alle ultime Sonate, le opere più dense, più concettuali, più trascendenti – vorrei dire ultraterrene – di Beethoven, ci si sorprende ancor più nel riscontrare come il giovane Bartók, ottant’anni dopo, abbia potuto riferirsi a esse nell’affrontare quella forma musicale che da Haydn in poi ha affascinato tutte le successive generazioni di musicisti.

Ma non si vive di soli Quartetti, nonostante la loro acclarata supremazia, e dunque ci si lascia attrarre dall’integrale delle Sinfonie di Brahms messe in scena all’Auditorium dalla Verdi con la direzione del maestro americano Robert Trevino. Abbiamo detto di lui cose meravigliose quando diresse la Leningrado di Šostakovič, poi restammo perplessi ascoltando la Sesta di Mahler, fummo infine interdetti quando un mese fa diresse le prime due Sinfonie di Brahms.

Viola-2

Ora, dopo averle ascoltate tutte e quattro, possiamo dire che proprio non ci siamo. Tante idee, molta passione e molto studio (le ha dirette tutte e quattro a memoria senza mai sbagliare un attacco), ma il risultato lascia molto a desiderare. Anche a lui, come al suo connazionale Axelrod, manca un po’ quell’esprit de finesse che in Brahms è quasi tutto. La cosa più curiosa è che Trevino sembra, specialmente nella Terza (il meraviglioso Allegretto!), non sentire il “respiro” della musica, non prende fiato fra una frase e l’altra, non sottolinea nelle ripetizioni il significato di eco o la necessità di riaffermazione, tutto è reso omogeneo fino al punto da sembrare piatto, talvolta quasi strascicato. La lettura della Quarta è stata più approfondita, interpretata con misurata pomposità e resa quasi patinata; decisamente bene invece il portentoso finale la cui forma – quella della Ciaccona o Passacaglia – si adatta meglio all’attitudine treviniana di togliere il respiro, di leggere “à bout de souffle”, di far precipitare ogni variazione in quella successiva come incalzato da una forza primordiale.

Poi bisognerebbe dire di Piano City ma, con tutto quello che si è sentito, non si sa da che parte incominciare. Fra la tanta musica del weekend pianistico milanese una pagina commovente l’ha scritta un quattordicenne ancora del tutto sconosciuto che sabato pomeriggio, nell’aula magna della scuola di piazza Ascoli, ha eseguito due improvvisi di Schubert – il secondo e il terzo dell’opera 90 – con una grazia, una leggiadria e insieme una così grande profondità che sembrava impossibile potessero albergare in un ragazzino tanto giovane e dall’aspetto così sbarazzino. Si chiama Tommaso Ludovico Grassi ed è un nome da tenere a mente perché presto ne sentiremo parlare come di un prodigio. Coraggio Tommaso, tieni duro e non perderti per la strada!

Paolo Viola



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