28 aprile 2019

IL LAVORO TRAVOLTO DAL CAMBIAMENTO

Ci sarà una classe politica adeguata?


Primo Maggio, festa del lavoro. Quando ero un Balilla e poi un Marinaretto, non si festeggiava. Mussolini: nel 1923 aveva abolito la festa o meglio l’aveva accorpata a quella del Natale di Roma che cade il 21 aprile. Le motivazioni storiche erano piuttosto deboli se non inesistenti ma l’obbiettivo era chiaro; cancellare la festa “rossa” per eccellenza. Al fascismo, d’altro canto, premeva sottrarre alle sinistre l’egemonia culturale nel mondo del lavoro sostituendovi la sua confusa ideologia corporativa. Quando riapparve, dopo la Liberazione, la festa fu subito diversa: perduto ogni romanticismo da socialismo alla Volpedo era chiaramente una festa di lotta, di lotta di classe.

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Col passare degli anni questa durezza andò lentamente sparendo diventando via via festa dei lavoratori, festa dei sindacati, festa e basta. Parallelamente alla fine dell’operaismo di scontro, alla crisi della sinistra marxista e del sindacato comunista e ad una invero timida riappropriazione politica del tema del lavoro da parte del mondo cattolico, l’iniziale coloritura rossa si era man mano stemperata.

La borghesia di sinistra cominciò a considerarla di famiglia: interclassismo cattolico e professionalismo taylorista cominciarono a considerarla soltanto festa del lavoro. Certo l’idea del lavoro che la ispirava rimaneva “rossa” ma anche il “bianco” l’attraversava e poi quale società industriale può negare al lavoro un’occasione di festa? Fa niente se è una festa di sinistra: chi può negare un rapporto stretto tra lavoratori che si autodefiniscono proletari e una collocazione politica a sinistra? Non siamo forse in democrazia?

Ma oggi è ancora così? Forse che il “lavoro” per l’Italia di oggi è ancora soltanto un problema delle “tute blu” come tali le sole chiamate a festeggiarlo o a rivendicarlo? O non ci avviamo piuttosto verso il rischio di una società del “non lavoro” o quantomeno del lavoro sempre più scarso e concorrenziato, non tanto dai robot, quanto piuttosto da un nuovo tipo di sua organizzazione anche politica?

Non c’è forse il rischio che problematizzandone il dramma, ma solo marciando, si finisca col sovra semplificarlo?

E allora la domanda è: in una società del non lavoro o almeno del non lavoro classico, salariato, dipendente, inquadrato sindacalmente, ha ancora senso una festa di quel “lavoro”? Certo festeggiare quello che c’è può avere ancora molto senso, ma alla condizione di sapere che quando si parla di lavoro oggi non si può rimanere ancorati alle pratiche di ieri.

Occorre ripensarci radicalmente. Cominciando col rendersi conto che oggi il lavoro non è più quello di ieri, che per essere tale doveva passare dal mercato ed essere quindi “pagato”. Sta sempre più diventando qualcosa di molto diverso: quello che, spinto dalla digitalizzazione sta già oggi dilagando nella mobilità, nella robotica, nel “remoto”, nell’intelligenza artificiale; sempre più intriso di nuovi saperi e di nuove creatività; sempre più domandante esperienza e formazione radicalmente nuove, sempre più sconcertante per i nostri giovani che nel saper mescolare mobilità e lavoro si sentono del tutto fuori dall’ufficialità di entrambi i due mondi.

A questi giovani, a questi sperimentatori di nuove forme di lavoro delocalizzato, de-istituzionalizzato, che cosa dice la Festa del Lavoro?

Capirlo sembrerebbe indispensabile. Ma chi nella nostra politica lo fa?

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Certo un po’ lo stanno facendo i Papi quando nella Laborem Exercens del 1981 affermano “…con la parola «lavoro» va indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l’uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità“.

Solo che tutto questo è largamente sfidato dal vero problema di oggi, che la politica continua a sotto valutare: il ritmo dell’innovazione. Quasi che l’innovazione possa essere subìta senza critica politica, come un frutto auto-prodotto dalla tecnologia e di cui l’uomo può al massimo prendere atto. Ma che la società non può governare. Tramontata l’era della fabbrica, stereotipo principe del fordismo, oggi è in discussione persino l’ufficio come luogo di produzione mentre il telelavoro consente di produrre nel globale ma anche in quasi assoluta solitudine, in una sorta di nemesi laica dell’ideale certosino “beata solitudo, sola beatitudo”. Dunque dovremo rassegnarci in futuro a veder sfilare il Primo Maggio i robot autoprodotti eventualmente accompagnati da uno stuolo di immigrati, per lo più disoccupati e da managers di quota 100?

È la sfida della rivoluzione tecnologica. Una sfida che può aprire a un nuovo umanesimo, a una nuova centralità della creatività umana e quindi del lavoro.

Ma a una condizione: se sapremo liberarci degli stereotipi del passato.

La domanda è allora: vogliono le classi dirigenti, oggi del tutto inadeguate sia a destra che a sinistra, governare questa trasformazione?

Certo la notizia di questi giorni, secondo la quale perfino la Confindustria – di solito ben in ritardo nel capire quello che succede nella società produttiva che le vive accanto – essendosi offerta di partecipare alla marcia è invece stata respinta dalla C.G.L. non induce a bene sperare.

Ma malgrado tutto il segnale contiene qualcosa di positivo: il nascere della consapevolezza che il tema del lavoro non è più da tempo un tema di lotta di classe ma ben di più.

È il futuro di tutti noi in questo mondo di travolgente cambiamento.

Piero Bassetti



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  1. Alberto NanniBellissimo articolo di una “testa pensante” sempre più rare perché il feroce e rapido cambiamento in atto distrugge anche le condizioni affinché si formino persone che dovrebbero formare la cd classe dirigente. Il livello qualitativo della cd società civile e’ da tempo in discesa e di ciò ne e’ evidente prova il livello della nuova classe politica che e’ terribilmente modesto. Come cercare di modificare tale trend non mi e’ chiaro e temo che non abbiamo ancora toccato il fondo, che e’ solitamente la condizione “ fisica” per risalire.
    1 maggio 2019 • 06:18Rispondi
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