5 marzo 2019

BROKEN NATURE ALLA XXII TRIENNALE. PER CHI?

Il “broken man” dov’è?


Da vedere. Come concludono le critiche cinematografiche. Una visita, prendendosi il tempo giusto – mezza giornata – va fatta. Tutte le volte che visito una mostra, uscendo, mi domando: per chi è stata fatta? Anche in questo caso. Certo è fatta per i molti che, come me, riflettono sull’ambiente, sulla natura e sul suo destino: come dire sul nostro futuro.

Il filosofo Franco Bolelli, su la Repubblica Milano di lunedì 4 scorso, chiude il suo pezzo sulla mostra dicendo: ”Fate come vi dico e vedrete come uscendo dalla Triennale vi troverete non banalmente buoni e consapevoli ma molto più forti, più decisi a costruire.”.

Per me non è stato così, non mi sono sentito né banalmente più buono, ammesso che essere buoni di questi tempi sia banale, certo non più forte e senza aver ben capito cosa dovrei costruire.

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Ma la prima domanda resta: per chi è fatta questa mostra? Dividendo il mondo in due con la scure, vedo docenti da una parte e discenti dall’altra: certo questa mostra è dedicata molto più ai primi, i docenti, che non ai secondi, i discenti. Se il mondo va avanti è perché c’è chi insegna e chi impara, va bene così. Qualche considerazione andrebbe però fatta sui discenti visitatori della Triennale, chi sono, chi si vorrebbe che fossero e se il progetto di comunicazione sia il più adatto a raggiungere i giovani come vorrebbe Stefano Boeri, presidente della Triennale. C’è tempo per osservare le ricadute.

Il titolo “Broken Nature”, dopo la visita in Triennale ci pone un interrogativo sulla declinazione di “Nature”.

L’essere umano è “nature”? La XXII Triennale ci parla dell’uomo come sconsiderato sfruttatore della natura, da un lato, e attento ricercatore dall’altro per rimediare ai guasti del primo ma non se ne parla come di un “essere” sfruttato e devastato: spesso bambini ridotti in schiavitù, in particolare in Ghana e in Congo ma anche altrove, nelle miniere dalle quali si cavano molti dei metalli rari che servono proprio alla fabbricazione di tutto l’hardware che ha permesso non solo la nascita della rete ma di quasi tutte le apparecchiature di ricerca scientifica e tecnologica e anche le moderne macchine di produzione a cominciare dalle stampanti in 3D.

«Broken man».

Anche il semplice smaltimento in India e in Africa di tutti questi apparati fuori uso vede l’impiego di adulti e bambini in condizioni a dir poco disumane e sempre in Paesi preda di guerre per bande alle quali i nostri Paesi civili, attenti però alla natura, vendono armi con l’obiettivo di far affari e mantenere una popolazione affamata schiavizzabile e quindi “utile”. L’”urban mining” non basta a placare la fame di materie prime e di metalli rari.

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Leggo nella presentazione di Paola Antonelli – la principale responsabile della mostra -”Urge un risveglio alla realtà, e urge uno sforzo comune per riparare non solo i legami, ma anche la nostra visione della posizione dell’essere umano nell’universo. Il design è uno strumento fondamentale”. Allora mi domando: se il “problema” natura è come fosse un dodecaedro, quale faccia ne stiamo guardando?

È impossibile affrontare un tema di questa portata senza la necessaria premessa che ogni disciplina si dovrebbe porre quando affronta questioni universali: “Questo è quello che noi possiamo fare per risolvere il problema?”. Se poi è “fondamentale”, come afferma la Antonelli, lo diranno gli altri.

Non da ieri il mondo dell’architettura, dal design all’urbanistica, soffre di una sorta di super-ego che lo sta dolorosamente logorando nell’attività quotidiana e nell’immagine collettiva.

Tornando alla domanda principale, “la XXII Triennale per chi?”, qualche risposta puntuale va anche data.

Certamente lo è per architetti e designer che potranno apprezzare non solo alcune delle cose esposte e di grande interesse ma anche il modo di esporle: un allestimento curato, una grafica di grande livello. Forse le didascalie hanno caratteri un po’ troppo piccoli e costringono ad abbassarsi per leggere; forse la quasi totalità di scritti e testi solo in lingua inglese penalizza un Paese dove l’inglese non è così diffuso, ancor più quando vi siano vocaboli scientifici. Dettagli.

Franco Bolelli dice che usciremo dalla Triennale “più forti, più decisi a costruire”. Forse sì: costruire ad esempio una visione più olistica del problema della natura, parlando di economia circolare versus industria manifatturiera e industria mineraria. Non solo. Un più forte impegno politico.

Buona visita comunque, da non perdere e se uscirete con qualche dubbio rallegratevi: il dubbio è una virtù, non tra le Cardinali ma tra quelle della civiltà.

Luca Beltrami Gadola



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  1. Gianluca GennaiCaro Direttore, premetto che non è usuale per me commentare articoli che non parlino di temi "vicini", e questo non è per me un tema "vicino" da qualsiasi parte si guardi il dodecaedro. ho letto e riletto la sua e non mi stanco di farlo. Colgo il suo modo di scrivere con leggerezza ma anche con fermezza, quel modo ch'è chiaro e trasparente quanto critico non del particolare, non del singolo...Lei va oltre e non so a quanti arrivi un suo messaggio sussurrato eppure chiaro. Si, ha ragione, spero che la Triennale ritorni a assere fruibile a tutti i ceti sociali anche se dubito entro breve, o almeno finché sarà direttore quel Boeri che sempre più, manifesta il suo ego quasi rabbioso, usato dai forti come cavallo di troia per fare di Milano una città per ricchi e acculturati, dove i periferici e, se si vuole usare un termine in disuso, il proletariato, deve stare ai margini, silente e all'occorrenza stolto abbastanza da osannare i totem ( come dire, studia capra o resta dove sei, coem se il diritto allo studio sia un tema superato ). Chissà cosa pensa Isosaki, un minimalista visionario , pratico e asciutto nelle forme, che ho conosciuto al Palaockey di Torino, di questa Triennale a conduzione narcisista.
    6 marzo 2019 • 21:34Rispondi
  2. Vittoria MoloneMostra molto bella e interessante anche se difficile, e le scritte messe così in basso certo non aiutano. Sono daccordo: e che dire dei bambini e adulti "broken"? E anche sul fatto che tutti dobbiamo fare quello che possiamo senza stabilire noi che quello che facciamo è fondamentale.
    8 marzo 2019 • 09:58Rispondi
  3. casalinga di milanoCaro Luca, ho letto e riletto questo commento, ma non ho capito un'acca, sia a proposito del contenuto della mostra, sia del commento stesso. Già l'idea di chiamarla "Broken nature" mi ha insospettito: quando si propinano parole straniere, di incerto significato, vuol dire che o non si hanno le idee chiare, o che si vuole ingannare il popolo. Un nostro filosofo (notissimo) diceva qualche anno fa che chi parla male, pensa anche male. Io seguo sempre il consiglio di una mia vecchia zia (salvifica) che mi diceva: non comperare mai i biglietti di mostre che non capisci. Oggi, poi dà lo stesso consiglio il re degli investitori, Warren Buffett; quindi è tuttora valido. In estrema sintesi, sospetto che alla Triennale mi si voglia spacciare una bufala, e me ne terrò lontana.
    12 marzo 2019 • 22:11Rispondi
  4. Cesare MocchiHo visitato la mostra Broken Nature: tema importante, intenti lodevoli, contributi significativi, sia quelli per più esperti (segnalo in particolare il contributo tedesco), sia quelli più comunicativi (molto bello quello sul mondo delle piante). Ho qualche perplessità invece sulla presentazione della mostra, che si riflette inevitabilmente sui molti contributi. Innanzitutto il design (inteso in senso lato), che giocherebbe un ruolo fondamentale per indurre i giusti comportamenti nella popolazione. Davvero? Davvero a Milano ad esempio la raccolta differenziata dei rifiuti si è diffusa per la bellezza del design dei cassonetti o dei raccoglitori domestici, e non invece per i provvedimenti, l'informazione, la consapevolezza? Davvero i cittadini vanno "indotti", ovvero manipolati, per un buono o cattivo fine non importa? Penso davvero che si stia perdendo di vista come le politiche siano un prodotto collettivo, e non un esito di un design, benevolo o meno (che comunque deve esserci, per carità, ma che non è così fondamentale, piantiamola noi architetti di considerarci al centro del mondo!). Ma quello che mi ha più irritato è la chiosa finale: ci estingueremo, ma almeno verremo ricordati per la nostra intelligenza. Frase ad effetto, salottiera, che infatti è piaciuta ai giornali. A parte il fastidio di vedere trattata con tanta leggerezza una questione che comunque è all'ordine del giorno (e non solo per motivi ambientali, anche per il macchinismo applicato alle scienze cognitive, anche se qui c'è davvero chi fa tanta fantascienza...), mi chiedo chi troverebbe intelligente chi sta segando il ramo dell'albero su cui è seduto (che è quello che stiamo facendo noi). E anche se dichiarasse di esserne consapevole, a maggior ragione non lo riterremmo invece un cretino? Per fortuna venerdì scorso si sono visti per le strade tanti che hanno capito che l'intelligenza non è in una battuta snob - ma nella consapevolezza e nel darsi da fare.
    17 marzo 2019 • 17:22Rispondi
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