3 dicembre 2018

NUOVI INTERPRETI A MILANO

Dalla Francia fino in Russia, la musica non ha confini


Due concerti, sentiti entrambi la scorsa settimana, hanno portato e riportato in città nuovi interpreti: un concerto di musica da camera al Conservatorio, con due giovani esordienti a Milano, l’altro di musica sinfonica alla Scala, con un’orchestra nuova ma non del tutto, avendo avuto modo di ascoltarla ed apprezzarla già una prima volta nell’aprile scorso.

181203_Viola-01Al Conservatorio il programma prevedeva quattro celebri Sonate per violoncello e pianoforte, rispettivamente di Francis Poulenc, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Claude Debussy e César Franck (trascrizione Delsart) eseguite per la Società del Quartetto da Edgar Moreau al violoncello e David Kardouch al pianoforte, entrambi francesi; alla Scala due opere di Gustav Mahler – “Des Knaben Wunderhorn” per mezzosoprano, baritono e orchestra e la Quarta Sinfonia (“Das himmliche Leben” con voce di soprano che si aggiunge nell’ultimo movimento) – sono state eseguite dall’Orchestra MusicAeterna di Perm (Russia) con il suo direttore greco Teodor Currentzis, il soprano caraibico Jeanine De Bique (unica non europea che tuttavia si esprimeva in un perfetto tedesco), il mezzosoprano irlandese Paula Murrihy ed il baritono tedesco Florian Boesch.

Di Moreau e Kardouch (ventiquattro anni il primo, trentatré il secondo), per la prima volta in Italia salvo qualche rara apparizione all’inizio di carriera, non posso che dire meraviglie: un affiatamento esemplare, passione e rigore bene equilibrati, emozioni a fiotti ma perfettamente controllate, il duo ha offerto una lettura della sonata-capolavoro di César Franck che non ha fatto minimamente rimpiangere il meraviglioso originale per violino e pianoforte. Il prezioso strumento nelle mani di Moreau (un Tecchler del 1711) aveva un suono morbido e suadente che forse avrebbe dovuto esser accompagnato da un pianoforte meno impetuoso; ma l’intesa fra i due ragazzi era così profonda ed avvolgente che li si è perdonati con piacere. E in particolare nel bis – l’“Andante espressivo” dell’organista francese Fernand de la Tombelle (della generazione successiva a quella di Franck) – hanno dato il meglio di loro stessi portando ad una sorprendente simbiosi le voci dei loro strumenti.

Del quarantaseienne baldanzoso Currentzis e della sua orchestra MusicAeterna, composta da molti giovani, ho già scritto in questo giornale all’indomani del loro debutto scaligero quando eseguirono (e bissarono!) l’Ouverture delle Nozze di Figaro infilandola fra il terzo Concerto per pianoforte e orchestra e la settima Sinfonia di Beethoven. Ho raccontato della sua genialità, dell’aver scelto una vita quasi monastica in una cittadina della grande Madre Russia nel cuore degli Urali e soprattutto delle infinite prove con cui hanno l’abitudine di approfondire pochi programmi che poi portano in tournée. Di quel concerto scrissi: “Mai sentita una cosa simile. Mai potuto toccare con mano, nota per nota, una partitura come se l’avessimo davanti agli occhi, scolpita nella pietra. Mai potuto capire così profondamente la struttura della forma musicale e le intenzioni della sua lettura. Mai riusciti ad entrare così nitidamente nella testa del compositore e in quella dell’interprete.” Ed ora non potrei che ripetermi. Da una parte un Mahler analizzato tanto minuziosamente da far emergere tutte le sottigliezze e le invenzioni della sua mitica orchestrazione, dall’altra il rapporto fra voci e orchestra (oltre 100 elementi!) che escludeva ogni forma di divismo o di esibizionismo a vantaggio del perfetto equilibrio dei piani sonori e dell’armonico amalgama di timbri e pesi. Una vera gioia dell’ascolto.

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La quarta Sinfonia è la più amabile ed accattivante fra le nove sorelle mahleriane. Fu scritta nell’anno 1900 quasi volesse rappresentare la conclusione del secolo della musica romantica, e in ciò ricorda la prima Sinfonia di Prokof’ev, detta “la Classica” (scritta 17 anni dopo, fra la fine della Grande Guerra e l’inizio della Rivoluzione bolscevica); come quella ha un vago sapore settecentesco, solare, haydniano, orientato tutto alla pura ed astratta ricerca della “bellezza”. Non a caso il motivo dominante del primo movimento è una elaborazione del secondo tema della Sonata D 568 in mi bemolle maggiore (postuma) per pianoforte di Schubert, cosa che intuì molto bene Claudio Abbado quando, facendola praticamente scoprire al pubblico della Scala, la eseguì per la prima volta sfoggiando uno straordinario e indimenticabile sorriso.

La lettura che ne ha dato Currentzis ha sottolineato molto bene quella idilliaca serenità che si palesa fin dalle prime battute e che si sublima, e diventa rarefatta, negli ultimi tre movimenti – Ohne Hast (senza fretta), Ruhevoll (poco adagio), Sehr behaglich (molto comodo) – quasi come un’anticipazione del famoso ”Adagietto” della sinfonia successiva, che mezzo secolo dopo diventerà la colonna sonora di “Morte a Venezia” di Luchino Visconti con la sua magica atmosfera.

Fra gli esecutori e gli autori delle musiche in programma non vi era neanche un italiano, erano francesi, tedeschi, belgi, boemi, russi e perfino un greco. Sappiamo che la musica ha più di qualsiasi altra arte la capacità di non far sentire confini, differenze, distanze, estraneità fra popoli e nazioni; se nel settecento i compositori si sforzavano di dare un’identità nazionale alle loro opere, oggi noi ascoltiamo musica classica senza chiederci più da quale paese essa arrivi. Ed è questo, credo, uno dei modi più genuini per cui ci sentiamo europei.

Paolo Viola



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