26 novembre 2018

STARTUP, NON BASTA LA PAROLA

Lo stato di salute delle circa 10 mila imprese innovative italiane. E il ruolo-guida di Milano


Meno di quattro addetti per società, valore medio della produzione a 164mila euro all’anno. Care startup, è tutto qua? A sei anni dal varo del Decreto Passera che le istituì, un’analisi delle 9.647 imprese innovative nate in Italia che si basasse solo sulle medie statistiche rischierebbe di liquidare con un’alzata di spalle un settore che merita invece altra attenzione. Eppure, proprio dai numeri bisogna partire per iniziare a distinguere la realtà dal sogno e individuare modelli e settori su cui puntare veramente.

Ma se non tutto è da buttare, forse di una cosa possiamo e dobbiamo liberarci: la retorica stessa delle startup. Quell’onda di comunicazione, che dal 2012 ad oggi ci ha fatto intravedere in ogni giovane sviluppatore di app un novello Steve Jobs, ha prodotto una «bolla emozionale» che, scoppiando, rischia di trascinare con sé anche la nuova fiammata di imprenditorialità che si è intravista. Distinguiamo dunque.

Gli anni dal 2012 ad oggi hanno già prodotto, anche se silenziosamente, le prime vittime di questo sistema: centinaia di app e marketplace senza mercato, un certo tipo di incubatori in rosso perenne, «aziende che – come dice sempre Francesco Inguscio, fondatore dell’incubatore milanese Nuvolab, uno che vizi e virtù dell’ecosistema li conosce bene – più che con le startup hanno fatto soldi sulle startup». Come se fare open innovation fosse un’azione di Corporate Social Responsability più che di vera ridefinizione delle proprie modalità di sviluppo.

Ma in Italia, e soprattutto in Lombardia – dove si concentra quasi il 25% delle startup italiane, il 17% nella sola Milano – si muove ben altro. Anche a livello di capitali. Il Politecnico ha appena dato vita a Poli360, fondo di venture capital dotato di 60 milioni di euro realizzato in partnership con 360 Capital Partners dedicato al trasferimento tecnologico e che, negli intenti, andrà a supportare prevalentemente studenti e ricercatori dell’ateneo. Un’operazione pubblica mai vista prima in Italia. In corso di Porta Romana apre ora Le Village, hub dell’innovazione di Crédit Agricole in Italia, prima sede all’estero di una rete che Oltralpe conta già 25 centri in cui le startup possono cooperare con aziende e «abilitatori» di ogni sorta. Sul versante privato, in via San Martino è nata in pochi anni una «Fabbrica di Imprese», e-Novia, che la parola startup l’ha di fatto abolita. In due anni e mezzo la società capitanata da Vincenzo Russi ha raccolto 53 milioni di investimenti crescendo ogni anno a doppia cifra, passando da startup a Pmi innovativa per puntare ora alla Borsa.

I prodotti? Ventisei società innovative che rappresentano al meglio le potenzialità del nostro Paese nel campo dell’ingegneria e dell’intelligenza artificiale: droni di terra per il last mile delivery in ambito urbano; abs e sospensioni smart per le biciclette; ammortizzatori elettronici per le moto e altro ancora. A sostenerla una rete di investitori che rappresenta una parte importante dell’imprenditoria italiana. Partnership più che scommesse finanziarie. Sono solo tre esempi, assieme a tanti altri, di cosa si sta muovendo di nuovo a Milano.

Ingegneria, meccatronica, robotica, insieme a Life Science, biotecnologia e Medtech sono i settori in cui si muovono le idee più interessanti. Campi con necessità di investimenti a medio-lungo termine ma con ritorni importanti per tutto il sistema: le imprese, gli investitori, la ricerca. Nascosto tra le pieghe di quei numeri sulle quasi 10.000 startup italiane c’è anche questo. Non facciamoci accecare dalle statistiche. In un Paese che a volte sembra senza bussola, anche nel campo dell’innovazione, Milano sta giocando una partita di portata globale.

Luca Barbieri

Giornalista e imprenditore

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