10 maggio 2021

“SALA I’ VORREI CHE TU……”

Forse più spicciola empatia e meno dichiarazioni


Mi auguro con tutto il cuore che Beppe Sala venga rieletto sindaco di Milano. L’alternativa, Lupi o chiunque altro sbucasse dal cappello della destra, sarebbe come cadere dalla padella nella brace e la padella, per quanto ammaccata, è sempre meglio della brace. Mi auguro però che Sala prenda esempio dalle famiglie contadine di una volta che, quando il fondo del paiolo di rame mostrava qualche cedimento, si rivolgevano allo stagnino che lo sostituiva.

pivetta

Rieletto, con qualche anno davanti a sé per provare davvero a lasciare il segno, Sala potrebbe appunto cambiare qualcosa della sua amministrazione, rivolgendosi ai suoi elettori, approfittando del loro aiuto, in linea con quanto lui stesso ha descritto in una lettera al Corriere (10 maggio): “La città è l’insieme delle volontà, delle ambizioni, delle solidarietà, che connotano la vita della sua comunità, dalle piccole cose di ogni quartiere, fino alle grandi scelte strategiche. Tu, il sindaco, hai il grande privilegio di far esprimere al loro meglio tutte le componenti della città. E soprattutto hai il grande onore di far sintesi e di costruire insieme a loro la via verso il futuro”. Quale futuro? “… un futuro di crescita, di equità, di sostenibilità”.

Mi capita spesso, a proposito di città e di sindaci, di citare Jerome Charyn, scrittore americano di origine ebrea e polacca. In un libro molto bello, “Metropolis”, racconta la sua città, New York, testimoniando nelle prime pagine una sua giornata con Ed Koch, altro immigrato, sindaco dal 1978 al 1989, “sempre in movimento dalle sei del mattino a mezzanotte: “Un uomo normale – scrive Charyn – sarebbe stato distrutto da quel ritmo di lavoro”. A fine sera, Charyn segue Koch in un “auditorium della municipalità” per una assemblea di cittadini: “Tutti sembravano trovar da ridire su New York. Koch non si scherniva. Non dava risposte sfuggenti. Era preso da una sorta di intimo ballo con il pubblico...”. Ad un vecchio che si lamentava per le continue aggressioni subite, il sindaco, dopo essersi consultato con il commissario di polizia, rispose: “Del suo caso ce ne occupiamo noi. Vedrà”. “Una certa signora Moskowitz rimase esterrefatta quando Koch invitò il commissario alla sanità a incontrarsi con lei il giorno dopo per valutare insieme il problema dei rifiuti nel suo isolato. Andremo a berci un caffè, disse la donna al commissario”. A New York.

Koch potrebbe valere come il buon esempio di un rapporto diretto con i cittadini, un rapporto non univoco: i cittadini narrano la città con i suoi problemi, il sindaco può ascoltare e prender nota e conoscere così più di quanto possa fare dal suo ufficio di City Hall. Verrà il momento delle decisioni, che dovranno tenere conto di tutto. Un esempio di democrazia, di responsabilità condivisa, di partecipazione…

Gli anni settanta, di cui tanto si è discusso in questi giorni, non furono solo gli “anni di piombo”. Furono anni di grandi riforme, come tutti ricordiamo. Furono anche gli anni della rivendicazione di una estensione della democrazia in varie zone della società: così si moltiplicarono le assemblee spontanee (si cominciò poi a denunciare l’ “assemblearismo”), dalle università alle officine, e nacquero i consigli di quartiere, i consigli di fabbrica, i comitati di genitori e studenti nelle scuole, le organizzazioni spontanee dei cittadini… Norberto Bobbio ebbe a scrivere: “Da questo punto di vista credo si debba parlare a buon diritto di una vera e propria svolta nello sviluppo delle istituzioni democratiche, che può essere sinteticamente riassunta in una formula come questa: dalla democratizzazione dello stato alla democratizzazione della società”. Bobbio parlava di “potere ascendente. Dal basso verso l’alto.

Non è andata così, per varie ragioni, mutato equilibrio delle forze alla fine degli anni settanta, esaurimento dei movimenti sociali, ascesa di una forte ideologia neo-conservatrice, anche incapacità dei partiti di sinistra di immaginare nuovi modelli di partecipazione. Così la “spinta dal basso” e il “potere ascendente” si esaurirono o si ridussero nel vociferare inconcludente delle “piazze” di Santoro (ancora in auge, coltivate dal populismo di vario genere, che non esclude quelle telematiche).

Fossi il “Sala rieletto” comincerei a consultare la città: non rinuncerei alle Stelline e “ai tavoli tematici” degli esperti o dei pseudo esperti , magari cercherei persone capaci ancora per indipendenza di giudizio e in assenza di conflitti di interesse di esprimere una sensibilità critica, non accantonerei le piattaforme telematiche, non abbandonerei questionari online. Cercherei di capire quante persone abbiano condiviso le mie consultazioni, quante siano state almeno raggiunte e se non sia il caso di avviare una iniziativa molto più profonda, dettagliata, pedagogica, maieutica…

Fu una bella intuizione creare un assessorato alla partecipazione.. ma si dovrebbe pensare ad allestire per coerenza un assessorato alle decisioni. Si sa benissimo che una organizzazione gerarchica si autogestisce ben più facilmente di quella votata ai principi della solidarietà orizzontale e della distribuzione del potere e quanto sia arduo miscelare al punto giusto una democrazia rappresentativa e una democrazia partecipativa, delega e presenza.

Si sa pure quanto sia comodo delegare, quando l’orizzonte è segnato dall’individualismo. L’esperimento, tentato altrove in tante occasioni, dalla Grecia antica, dalla Comune di Parigi in poi, non può pesare sulle spalle del nostro Sala. C’è dell’utopia in tutto questo… Ma qualche tentativo non sarebbe azzardato. Di mezzo c’è sempre la volontà politica, che in campagna elettorale si manifesta in un senso e che, a urne chiuse, sceglie altre direzioni.

Intanto, a risultato ottenuto, preferirei percorrere la strada più semplice e convocare riunioni nei quartieri, attraverso i quali vorrei per giunta camminare, senza fascia tricolore, al fianco un collaboratore con il quaderno degli appunti in mano e magari il comandante dei vigili urbani di zona senza divisa. Forse così considererei meglio la città, ne apprezzerei la qualità e ne valuterei gli orrori.

“L’orrore sta nei particolari”, scriveva Heinrich Boll. I “particolari” come le buche nei marciapiedi, la sporcizia agli angoli delle strade, i lavori mai finiti, le transenne abbandonate… Poi annoterei via via i disagi o le pene della gente, che interpellata nello specifico e nella concretezza della propria esperienza, saprebbe indicare insieme con i problemi anche qualche soluzione, qualche idea che non è sempre il caso di abbandonare all’ingrato destino del silenzio, nell’oscurità di un cassetto come spesso è capitato.

Conosco piani, elaborati da associazioni di zona, che attendono da anni un poco di attenzione. Invece bisogna rispondere, respingendo le critiche oppure accogliendo le richieste, senza eludere le une e le altre… Si ricaverebbe così qualche vantaggio. Il primo potrebbe consistere nella conoscenza della città, indispensabile a qualsiasi forma di progetto, perché non sarà mai un rendering a dar conto della qualità della vita alla Barona o al Lorenteggio.

Il secondo potrebbe risultare nella rinascita dello spirito identitario dei milanesi, di un senso di appartenenza, di vicinanza e quindi di un riconoscimento di responsabilità, connettendo e finalizzando opinioni e suggerimenti. Ma ci si potrebbe pure illudere che così si rifaccia viva qualche passione per la politica, dopo anni se non decenni di abbattimento, in un mondo, come il nostro, in preda ai miraggi dei grattacieli, individualista, sottomesso al consumo di massa e alla dilagante passività nella sfera pubblica, in cui vegetano individui che non hanno bisogno di altre facoltà se non l’imitazione, “la facoltà delle scimmie” (qui cito il campione del liberalismo, Stuart Mill).

Se così si potesse sarebbe davvero un risultato memorabile, quando molto, o tutto, sembra procedere in direzione opposta. In fondo stiamo vivendo una pandemia che qualche cosa dovrebbe aver insegnato, ad esempio le virtù e la forza di una comunità solidale, dal “basso verso l’alto”.

Oreste Pivetta



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