18 novembre 2018

OGGI CHI VEDE PIÙ LAVORO?

Lo dimentichiamo, dimentichiamo noi stessi


Potrebbe capitare un giorno che i bambini pensino che viti e bulloni germinino spontanei negli scaffali di un qualsiasi hobby & work, così come già oggi possono credere che polli e tacchini crescano sotto forma di petti e cosce già confezionati nei vassoi di polistirolo. Destino del lavoro, ai tempi nostri, lavoro sconosciuto e che non si lascia conoscere, lavoro “nei campi e nelle officine” che sopravvive dal passato e lavoro che costruisce o lambisce il futuro, volatile e solitario, frainteso, in un caso o nell’altro precipitato nella distrazione di massa indotta dai miraggi imposti nell’epoca consumistica, necessità ma anche intralcio, tema occasionale, emergenziale, sempre meno strutturale nel racconto della contemporaneità. Da mesi qualcosa come il reddito di cittadinanza, nelle chiacchiere o nei programmi di governo, ha preso il sopravvento, negazione del lavoro.

L’Italia da contadina è diventata operaia, poi s’è ridotta sempre meno operaia e oggi non si sa che cosa sia. Secondo i dati dell’Istat ci stiamo realizzando in colf, badanti, baby sitter, in cuochi, tanti nella condizione di lavoratori autonomi, veri o falsi che siano, con dipendenti o senza dipendenti, cinque milioni e mezzo di lavoratori autonomi. Diminuiscono gli impiegati nel settore delle costruzioni, calano gli artigiani, si restringe l’area dell’industria. S’ingrossano le file dei disoccupati, dei sotto occupati, di chi si arrangia o prospera nel lavoro nero.

I cuochi si rappresentano da sé, neo-intellettuali della forchetta e del coltello, figure trionfanti nella tv gastronomica, specchio di una società indotta ad abbuffarsi allo stesso modo e in contemporanea di diete, integratori, biscotti alla crusca e zuppe vegane. Gli altri si affidano ai racconti altrui, che a loro volta seguono la corrente del luogo comune: che il lavoro operaio è scomparso, che è bello inventarsi imprenditori di se stessi con la partita iva, che l’informatica libera l’umanità dalla schiavitù della fatica. Alcune scene sono sparite dal racconto o compaiono e scompaiono in modo carsico. Chi coltiva le campagne pochi sanno, come avviene la vendemmia lo capiscono solo i vendemmiatori, la raccolta del pomodoro diventa argomento quando gli ultimi arrivati provano ad alzare la testa. Ci si ricorda del caporalato quando un caporale spara e uccide, di un operaio quando una lastra d’acciaio o un muletto che si rovescia o una vampata che esplode ne stroncano l’esistenza. Quasi cinquecento morti sul lavoro (dati Inail) nei primi sei mesi di quest’anno ci riportano alla realtà e contribuiscono a disegnare il profilo della nostra società. Questo numero, cinquecento, è un fotogramma. Manca il film, manca la panoramica, perché secondo me è venuta meno l’informazione ed è venuta meno la letteratura. Nessuno si prende la briga di seguire la raccomandazione di Edward Morgan Forster: connettere (“only connect” di Casa Howard). Si pensi ai “fatti”, non alla rete. All’iperconnessione si contrappone l’isolamento.

Mi preoccupa evidentemente di più la crisi della stampa, che è questione di numeri (le vendite dei giornali sono crollate: da sei milioni nel 2007 a meno della metà l’anno scorso) e di qualità (sembra d’assistere alla rincorsa di un modello sempre bocciato peraltro dal mercato italiano: quello del tabloid popolare). Un mondo, quello tradizionale della comunicazione e dell’informazione, si sta dissolvendo. Altro “lavoro”, quello del giornalista, che viene meno, se penso a un lavoro definito dalla cultura, dall’indipendenza, dalla responsabilità, valori che non si possono pretendere dagli attuali “portatori di pezzi” sottopagati e sfruttati alla pari dei “portatori di pizze”. L’alternativa non si costruisce e nemmeno si mostra. Il web fagocita, ma ci riesce al peggio conquistando le maggioranze a colpi di Fedez, Ferragni, Meghan, Corona il fotografo, eccetera eccetera. Salvo ovviamente manifestare la propria valenza culturale solo per gruppi selezionati di utenti. Vengono meno strumenti fondamentali della democrazia: la pseudo informazione che si offre è consolatoria, elusiva, vuota di qualsiasi responsabilità critica. Sarebbe interessante sviluppare un’analisi meno superficiale del sistema dei media in Italia e dei nessi con lo stato della cultura e della politica. L’odissea di un settimanale come Panorama, che fu il portabandiera di un nuovo giornalismo d’inchiesta, potrebbe risultare esemplare.

Dovrebbe correre in soccorso la letteratura, che vive la povertà di una scrittura indebolita dall’invadenza del web e la crisi di un “genere”, sopraffatto dalla narrativa seriale della tv. Si incappa nella nostalgia, perché se si parla o si scrive di letteratura e società, di letteratura e lavoro, è inevitabile guardare alle spalle e alla ricchezza di una stagione che poteva contare sulle prove di Volponi, Testori, Ottieri, Calvino, Mastronardi (ma a raccontare i calzolai di Vigevano fu anche un giornalista: Giorgio Bocca), di Primo Levi, di Carlo Bernari o di Luciano Bianciardi, narratori memorabili di un paese duro ma fiducioso, dinamico e propulsivo, del lavoro “per tutti”, pagato e sicuro, del benessere conquistato, se pure a costi altissimi, persino della politica e del suo esercizio. Un paese di fabbriche e di periferie che intrecciavano casa e catena di montaggio, lontano ormai dall’universo contadino, quel “sottomondo” che sapeva invece di frustrazione, rassegnazione e di un tempo immutabile (si pensi a Silone o a Carlo Levi), che costringeva i figli a vivere la vita dei padri e dei nonni, ma che è anche traccia di un’identità.

Il sentimento del tempo e dell’identità vale anche nel mondo dell’industria e delle fabbriche negli anni ’50 e ’60. Luoghi alienanti dominati da un’organizzazione votata all’efficienza e al profitto (rifacciamoci a “Tempi moderni” di Chaplin), moderni universi concentrazionari e luoghi di un potere paternalistico e velleitariamente progressista, denudato da Ottieri, Parise, Levi, Volponi… L’esistenza di grandi aziende, di sindacati combattivi e di una rappresentanza politica coerente (il Pci o la Dc “popolare”), di garanzie sul fronte dello stato sociale, dava però la possibilità di pensare al lavoro come a un’opportunità concreta di “crescere”: dentro e fuori la fabbrica, nel contrasto e nella lotta, la “durata”, cioè la resistenza del “posto”, realizzava una figura di operaio professionalizzato, ma anche critico, consapevole, orgoglioso del proprio sapere e della propria condizione, mai solitaria, condivisa nella “classe”. Vedi quell’esemplare “corto” di Ermanno Olmi, presentato da Arcipelago, in cui il “pensionato” rivendica il peso del proprio “mestiere” di fronte a due giovani tipografi. Si poteva raccontare tutto ciò perché visibile, materiale, tangibile: il potere come lo sfruttamento, l’organizzazione e l’individuo, le regole e la rivolta, il presente e un avvenire.

Virtù, orgoglio, coscienza collettiva, senso di appartenenza non hanno più cittadinanza nel mondo d’oggi in cui le aziende sono sempre più entità imperscrutabili, i vertici irraggiungibili, dominati dall’avidità dei guadagni, le controparti presso di cui far valere le proprie ragioni sempre più evanescenti e aggrovigliate d’interessi (finanziari, economici, politici) leciti e illeciti, contro di cui ci si può battere, ritrovandosi però disarmati dall’opacità: esemplare il titolo del romanzo di Walter Siti, “Resistere non serve a niente”.

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Tutto ciò dovrebbe portare a concludere che il lavoro è diventato il luogo del tempo sospeso e dei rapporti occasionali, della solitudine, lavoro magari a brevissimo termine su cui non si può costruire un bel niente né come individui né come collettività, su cui non si può sperare un bel niente. Ne hanno dato esempio romanzi di Giorgio Falco, Angelo Ferracuti (ma il suo libro più importante mi pare resti il reportage “Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia” sul disastro della motonave Elisabetta Montanari, 1987, quando morirono asfissiati tredici operai, pulitori della cisterna della nave: tra loro credo il primo immigrato caduto sul lavoro in Italia, un egiziano di trentasette anni), Silvia Avallone, Sebastiano Nata, Goffredo Buccini…

Quel che oggi resta dimenticato è l’universo delle odierne campagne di cui hanno dato conto libri-inchiesta come “Servi” di Rovelli e “Uomini e caporali” di Leogrande, ma per cui la letteratura non ha ancora trovato pagine capaci di restituirne la complessità, tra spietate dinamiche politiche ed economiche e la condanna a condizioni di vita e lavoro disumane proprie di una storia antica di schiavitù, seminando di nuovo una distanza abissale tra mondi e “sottomondi”, cancellando quel raccordo che Italo Calvino aveva individuato (in un indimenticabile reportage per Rinascita) percorrendo le strade tra le risaie del Vercellese, quando all’ingresso di una cascina scoprì una Vespa Piaggio e oltre i vetri di una finestra la luce grigiastra di un televisore: la mobilità e la comunicazione, intrattenimento e informazione, giunte anche ai margini della modernità urbana, a tracciare un tratto d’unione e di omologazione.

Oreste Pivetta



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  1. Gaspare JeanArticolo emozionante.....Mi ricorda anche i vecchi articoli di Oreste Pivetta
    21 novembre 2018 • 07:46Rispondi
  2. armando prof.Todesco500 morti sul lavoro anche se con dati Inail dal gennaio di 2o18 mi sembrano tanti .Se e' vero e' un fenomeno ch e e' scappato dalla investigazione giornalistica ed e' grave .
    21 novembre 2018 • 08:27Rispondi
  3. Enrico BrandeisUn titolo per il racconto del lavoro oggi Alberto Prunetti, "108 metri", Laterza
    21 novembre 2018 • 18:17Rispondi
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