19 giugno 2018

posta dei lettori_19.06.2018


Scrive Giacomo Properzj a proposito dell’intervento di Paolo Viola – Molto interessante, su ArcipelagoMilano, il dibattito tra Andrée Ruth Shammah, patron del Teatro Franco Parenti, e Paolo Viola, critico musicale, sul significato dell’impegno interpretativo nel teatro e nelle altre arti particolarmente nella musica.

Shammah sostiene che la rappresentazione teatrale è un unicum nel quale l’interprete impegna totalmente la propria personalità ogni volta che recita. Ogni spettacolo dunque è un fatto a sé, un atto creativo autonomo che cambia sempre, anche minimamente, ma che sempre rappresenta uno sforzo di creazione rinnovato e sofferto.

Questo, dice Paolo Viola, vale anche per la musica dove in effetti gli artisti, soprattutto i grandi artisti, hanno interpretazioni diverse degli stessi lavori musicali non solo tra di loro ma anche loro stessi nelle loro esecuzioni. Tutto ciò, naturalmente, vale maggiormente per l’opera lirica dove c’è un incontro con la teoria della Shammah ma vale anche per le interpretazioni dei solisti.

Si può quindi affermare che non c’è differenza tra le due visioni anche se l’interpretazione teatrale, soprattutto nel teatro moderno, ha una presa diretta sul pubblico che l’attore sente immediatamente e che rappresenta per lui una tensione costante faticosa e, spesso, dolorosa. Uno starnuto, un sussurro scambiato tra gli spettatori può rovinare un’interpretazione come naturalmente un dissenso manifesto o, peggio, una disattenzione collettiva.

Tutto questo non avviene né al cinema né alla televisione e quindi cala di molto la presa culturale che un’opera artisticamente importante e un interprete valido possono dare e tutto ciò spiega il calo del livello culturale ovunque ma, per quanto ci riguarda, nel nostro Paese. Dunque tutto sta nella tensione che si crea durante lo spettacolo, tensione che non mancava in Grecia durante le tragedie e che mancava quasi totalmente nell’epoca barocca durante le opere fastose e mondane così come è venuta poco a poco a mancare, alla fine del secolo scorso, non solo nel teatro tradizionale, ma anche nella rivista che l’aveva sostituito nel dopoguerra.

C’è qualche cosa che spiega meglio i concetti che ho cercato di evidenziare ed è l’oratoria politica: essa si è sviluppata nel corso degli ultimi secoli a partire dalla Rivoluzione Francese cioè a partire da quando nelle prime manifestazioni di democrazia l’oratore aveva la necessità di essere seguito dall’assemblea e di convincerla.

L’evoluzione delle tecniche, il passaggio cioè ai microfoni e perciò alle grandi folle, ha annullato spesso la capacità espressiva e il ragionamento politico basandosi unicamente sugli slogan (tutto ciò è chiamato nel gergo populismo) messi in azione dai grandi dittatori e poi da minori demagoghi fino ai nostri giorni, per arrivare, anche qui, alla televisione, alla sua asetticità e al gridio confuso senza ragionamento che porta, come direbbe Lenin , alla deculturalizzazione politica delle masse. Il meglio dell’oratoria politica si è visto nei congressi dove l’attenzione era altra, la passione fremente, gli interessi di partito importanti. I grandi leader del dopoguerra erano quasi tutti dei grandi oratori da congresso, decadevano in piazza e a poco a poco sono spariti sia dalle piazze che dai congressi, e anche dal Parlamento dove i grandi oratori del secolo passato avevano trovato momenti di partecipazione, certamente limitata, ma vera e sofferta.

Tutto questo per dire come il dibattito Shammah – Viola abbia un significato che va al di là dei preziosi orti botanici da ciascuno dei due frequentati ma investa la storia non solo del nostro Paese e meriti ogni attenzione. Attraverso l’espressione dei sentimenti si arriva, come è accaduto nella società greco classica alla definizione politica fino alla definizione giuridica: è uscito in questi giorni un libro edito dal Mulino intitolato “Giustizia e Mito”, due saggi di Marta Cartabia, vice presidente della Corte Costituzionale, e di Luciano Violante, già presidente della Camera che esaminano i miti greci di Edipo, Antigone e Creonte per trarne conseguenze di straordinario interesse sul piano giuridico. E’ un libro che andrebbe letto e meditato anche perché dimostra che non tutta la cultura politica e giuridica è morta, come sembra, nel nostro Paese.

 

Scrive Antoniotto Guidobono Cavalchini a proposito dell’apertura dei Navigli – Brillante e lucida la prima parte dell’articolo di Luca Beltrami Gadola, assolutamente condivisibile. Meno la seconda, “il momento sbagliato” inutilmente polemica, cattiva e di impostazione prettamente politica.

 

Scrive Enrico Biraghi a proposito dell’apertura dei Navigli – Sono molto d’accordo sui “no” alla riapertura dei Navigli, ma non ai toni contro Sala e chi non condivide le mie idee. Quello che mi preoccupa è che il Corriere della Sera faccia sistematica pubblicità alla riapertura dei Navigli. Manca un gruppo di lavoro “No alla riapertura“ con serie e non emotive motivazioni. Vorrei che si discutesse di come alternativamente si potrebbero spendere i soldi per una diversa Milano. Bisogna fare proposte alternative.

Riprenderei i la filosofia di Albertini per parcheggi ovunque per togliere le macchine dalle strade, pedonalizzare e fare molte piste ciclabili sullo stile di Amsterdam e Copenaghen. Una Milano più vivibile! Quante opposizioni alla pedonalizzazione di Via Dante o al parcheggio di Piazza S. Ambrogio, alla Nuova Darsena ( purtroppo senza parcheggi). Oggi tutti entusiasti! Conti alla mano, con l’aggiunta degli investimenti privati per un posto macchina, si potrebbero liberare più del 20% delle strade milanesi. Aperti ad altre idee, per poi sentire cosa i cittadini preferiscano.

Scrive Elena Bosciano a proposito dell’apertura dei Navigli – Sono totalmente d’accordo con quanto scritto da Luca Beltrami Gadola lo scorso 12 giugno! Suggerirei, e mi rendo disponibile, di avviare un’azione di sensibilizzazione anche con un presidio-sui-marciapiedi.

Scrive Silvano Fassetta a proposito dell’apertura dei Navigli – Sono d’accordo con il direttore . Francamente, non riesco a capire come a Sala sia venuta questa idea strampalata di riaprire i navigli. A che pro? Forse spera di far tornare la nebbia a Milano? In ogni caso non credo che venga avvertita dalla popolazione come un’opera necessaria e che la grande maggioranza dei cittadini abbia in mente ben altre priorità per la città. Come lo sviluppo di piste ciclabili sicure, ad esempio.

Ho la netta sensazione, considerando i costi e i disagi che comporterebbe la realizzazione di una tale opera, che l’insistenza di Sala nel volerla riproporre sia frutto della sua incapacità di discernere quali siano i veri bisogni degli abitanti di Milano. In definitiva, temo che nelle sue scelte egli sia guidato più da logiche “post Expo” (strutturare la città per finalità prettamente turistiche) che da altro.



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