12 giugno 2018

ESPROPRIAZIONE DEL TERRITORIO E AGONIA DELLE SINISTRE

La profonda crisi dell’urbanistica


L’abbandono di un indirizzo di politica pubblica per il territorio è la conseguenza inevitabile di chi dell’Europa ha importato solamente i meccanismi estrinseci della politica monetaria, lasciando sostanzialmente il paese in preda all’arcaico assetto ereditato nel dopoguerra de Le mani sulla città di Francesco Rosi. I timidi tentativi di opporsi al partito del mattone d’oro si sono sempre infranti nelle secche bipartisan della putrida palude politica italiota, ripetendo la farsa della mancata riforma urbanistica del 1963, quanto il riformista Fiorentino Sullo fu giubilato dal suo stesso partito, perché troppo avanzato e lungimirante.

07borsa22FBI punti dirimenti sono chiarissimi e ampiamente discussi nel dibattito parlamentare, culminato nella proposta del disegno di legge n. 144 della XV legislatura (Governo Prodi), la cui relazione introduttiva recita punto per punto tutte le magagne, le distorsioni e i pericoli ai quali questo regime legislativo espone il territorio italiano, mettendo in croce ancora di più gli architetti, ampliando a dismisura responsabilità e discrezionalità nell’esercizio della professione a detrimento di regole e garanzie, con il risultato di trasformare il cosiddetto libero mercato in una arena di pistoleros e briganti, dove dominano sovrani incontrastati e la legge del più forte con il darwinismo corporativo.

Proprio su questo punto dolente la relazione promuoveva, tra le altre cose, dei concetti cardine che oggi si presentano ancora più urgenti e attuali di quanto, se possibile, non fossero nel 2006: “Più in generale, il disegno di legge riafferma alcuni fondamentali principi dell’urbanistica. «Il territorio e le sue risorse sono patrimonio comune. Le autorità pubbliche ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze», così recita il primo comma del primo articolo della legge. Nel successivo articolo si riafferma il concetto – troppo spesso contraddetto dalla recente legislazione nazionale e di alcune Regioni – che la titolarità della pianificazione compete esclusivamente alle istituzioni pubbliche. Ancora più avanti si precisa che tale titolarità si esercita attraverso atti di pianificazione. Il presente provvedimento tenta inoltra di ampliare i principi cui deve essere soggetta la pianificazione urbanistica. Il primo riguarda il «diritto alla città e all’abitare»: un tentativo di estendere la storica conquista degli standard urbanistici al diritto ad un’abitazione, ai servizi, alla mobilità e alle risorse territoriali. Il secondo riguarda la partecipazione sociale alle scelte del governo del territorio. È un tema che in qualche modo esula dallo specifico campo della pianificazione, poiché riguarda l’esercizio della democrazia; ma per il loro carattere statutario, le scelte di sviluppo del territorio e delle città rappresentano uno dei campi fondamentali in cui deve essere perseguita la più ampia partecipazione sociale.”

In una ormai non più recente ricerca presentata a EU Cities Reloading 2014, sull’evoluzione degli strumenti urbanistici in Europa, la tavola comparativa vedeva l’Italia in ultima posizione, sia come aggiornamenti nella elaborazione di un quadro di indirizzo coerente, ossia legge di principi, che nell’ordinamento attuale spetterebbe allo Stato, sia in quella alla scala territoriale (che spetterebbe alle regioni). Il primato italiano che Federico Oliva ha stigmatizzato come la “contro-riforma” urbanistica su base regionale: “Il quadro che ne è emerso è decisamente allucinante, un mosaico senza capo né coda, che testimonia come in Italia non esistano serie politiche per il governo del territorio….nelle regioni (e provincie autonome) vi sono venti leggi diverse.” (F. Oliva, Semplificare la pianificazione, cambiare il piano, in Urbanistica, n. 149, 2012, p. 89-99).

Possiamo anche divertirci a scorrere il disarmante suono delle sigle che accompagnano i conati urbanistici italiani in sostituzione del “vecchio” Prg: Ps, Psc, Puc, Pucgc, Pug, Pat, Pgt, a cui segue Po, PocC, PolT, Pi, ma anche Pau, Prpc, Puoc, Puo, PA, Pud, Pac, per arrivare al Ptcp, Ptp, Pup, Ppsct. Se l’urbanistica è la concretizzazione e rappresentazione materiale e morfologica nel territorio della politica, ossia render visibile la propria idea di convivenza civile che si esprime attraverso il diritto alla città, la situazione oltre che tragica è anche seria.

Risulta chiaro che il nodo tra tutela del territorio, sviluppo, beni culturali e rapporto città territorio, valutazione del rischio per l’Italia ha una data cruciale che è quella dell’alluvione di Firenze, nel 1967, esperienza poi sviluppata nel Piano Pilota per la conservazione dei beni culturali in Umbria (Urbani, 1976) culminata nella proposta di una Carta del rischio del Patrimonio Culturale (ICR 1990).

Questa riforma, con la proposta creazione di una “agenzia nazionale del territorio”1 con funzioni di indirizzo strategico e poteri di interdizione basati sulla conoscenza e analisi oggettiva di una mappa delle criticità, per i tempi pionieristica, non ha mai visto la luce, partorendo invece prima una pletora di commissari straordinari (legge n. 996 dell’8 dicembre 1970) e poi il Dipartimento di Protezione Civile (1980, Ministero degli interni).

Neanche oggi, al momento in cui la tecnologia satellitare georeferenziata rende possibile incrociare dati quantitativi e qualitativi, è al centro delle priorità delle pratiche proiettive di governo del territorio. Tra architettura ed edilizia speculativa e di consumo i confini sono sempre più sfumati; in tutta la sua ambiguità il tragico dissidio tra modernità che arriva alla crisi della sua relazione con l’ambiente e la granitica certezza che consumo di suolo e rendita fondiaria ancorata alle regole cristallizzate nella preistorica formula magica del “cambio di destinazione d’uso” garantiscano ancora i margini di operabilità del progetto.

Mentre l’evoluzione della teoria dei giochi, dell’informatica e della comunicazione elabora “linguaggi globalizzati” e processi partecipativi sempre più sofisticati, gli architetti e gli urbanisti italiani reagiscono con impaccio alle pressioni e trasformazioni ambientali, rifugiandosi spesso in consolatorie ricerche estetiche e formalistiche o arroccandosi in un professionismo, ancorché colto, decisamente solitario.

Architettura, beni comuni e patrimonio culturale tendono invece sempre più a identificarsi nella loro relazione con il luogo, rendendo sempre meno appropriate separazioni e “specializzazioni” che in passato avevano acuito ed esasperato le divisioni tra competenze.

Ritornano alla mente le parole di Cederna: “In questa cultura dimezzata spiccano quelli che per mestiere operano direttamente sul territorio, la legione di architetti, ingegneri e geometri al soldo dei costruttori e delle immobiliari. Vittime di un’educazione sbagliata e di una scuola retrograda, costoro credono ancora che scopo del costruire sia l’affermazione della loro «personalità» (!), che architettura moderna sia produzione di capolavori da pubblicare sulle riviste, che foreste e litorali ci guadagnino ad essere lottizzati, che le «qualità formali» riscattino l’errore sociale, economico e urbanistico del loro intervento”.

Davide Borsa

1 – Era l’orientamento di Massimo Severo Giannini “il pregio dell’agenzia era che le si sarebbe potuto affidare tutta una attività di carattere non pubblicistico con cui farla agire. In tal modo si sarebbe ottenuto una struttura molto agile.” Come mi ha riferito Bruno Zanardi questo era anche l’avviso di G. Urbani; nacque invece il Ministero dei Beni Culturali (1974). Cfr. B. Zanardi Conservazione, restauro, tutela, Skira, 1999, p. 81-86.

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