29 maggio 2018

IL “TERRITORIO” UN DESERTO PER MINOTAURI

Le istituzioni nel collasso della politica


La tribù dei minotauri assiste preoccupata. I minotauri istituzionali e sociali sono quelle entità epiche che una volta riassumevano territori e comunità in una sintesi possibile, con uno sbrego di massa critica. Ed ora – riforma su riforma – sono rimasti a metà, e caracollano capoccioni su corpi con avantreni appesantiti. Province, magari, rimaste a metà del guado, camere di commercio accorpate per numero massimo, e-poi-ve-la-vedete-voi. Ma anche uffici decentrati, da Equitalia all’Agenzia delle entrate e ritorno, fino al Cnel, inseguito da referendum e ultimo “contratto” di governo.

Mattioni_20A ben considerare il minotauro pascola nelle “funzioni” e scavalca i confini. E soprattutto diventa una specie di Jurassic Park dell’ultima deriva politica, con annesso storytelling. La fine della repubblica dei partiti – e delle sue dimensioni territoriali, segretari politici cittadini, provinciali e regionali – inizia il cammino appena dopo la sbornia localista, insieme alla stagione dei movimenti, del leaderaggio, fino alla democrazia telematica. È soprattutto della stampa la difficoltà di interpretare la società nel suo rapporto con la politica, perdendo in qualche modo il monopolio dell’opinione pubblica, sempre più spostata nella danza infinita della rete. La disintermediazione, così diventa identitaria, così come gli ibridi quotidiani, che sono pendolari e city users senza spazio delimitato di vita e di lavoro.

È tutta una questione di “confine”. La stessa retorica delle nuove imprese, startappari metropolitani e della Sgurgola marsicana disegna un’imprenditoria, magari senza dipendenti e nemmeno partita Iva. Ma è un nuovo protagonismo che non va decantato dal nostalgico “ho aperto la ditta”, dalla prossimità fisica dei distretti manifatturieri, dalla socialità concreta di negozio di vicinato. Se vogliamo è la declinazione aggiornata del ceto medio autonomo, sdoganato dalla politica post tangentopoli e in continuo aggiornamento. Così come, ad esempio, lo spazio vitale di startappari azzimati è di nuovo al centro dell’ultima politica pregna di simboli e con un locale qualunque.

La nuova saldatura sociale è, dunque, tutta qua, in quello spazio senza terra dove per linguaggi, abitudini e innovazione implementativa – e manutentiva, senza cioè veri salti di discontinuità – si riconoscono manager, imprese, pendolari, balotelli e messa a terra di un virtuale quotidiano.

È tutta una questione di fine del territorio e della sua – stucchevole e spesso “provinciale” – centralità dei confini. Il territorio è ormai uno spazio vuoto intorno a simboli che la comunicazione telematica propone. Il combinato disposto di innovazione e tempo reale, globalizzazione dei mercati e micro localizzazione delle tribù. Compresi i miei cari minotauri.

Ci vorrebbero così istituzioni funzionali e non municipi che come isole galleggianti progettano PGT a prescindere.

Eppure, resta la concretezza dei cittadini senza più città e senza territorio. Capita così che oltre il 60 % di questi “giovani ideali” longobardi, ad esempio, parlino di politica meno di una volta al mese e che metà degli under 40 viva ancora in famiglia. A questi giovani ad uso e consumo di un Paese stanco, non puoi certo chiedere “contenuti sociali” anche quando intervengono nei cortei o in tv, venuti su a mojito e playstation. Ma il disagio giovanile calmierato dal welfare-fai-da-te della famiglia – non va sottovalutato. Ed è un tema “economico”, sostanzialmente. Un giovane su cinque nella ricca Lombardia è disoccupato, chi lavora ha uno stipendio del 34% più basso della media.

Nell’ultimo anno in Lombardia le imprese giovanili in difficoltà sono il 25% in più di quelle adulte, cinque anni fa era il contrario.

La questione, però, non è solo “congiunturale”, ma di prospettiva. Solo il 17% dei giovani spera in una posizione economica migliore dei genitori. Insomma, di qua ci sono i giovani cassaintegrati e precari della startup, di là ci sono gli highlander e i danpeterson di tutte le professioni, a partire da quelle “libere”, ai manager che sono come il vino, più invecchiano e più sembrano buoni. Qualche anno fa, chi se ne andava dall’azienda lasciava il posto al figlio, per portare nipoti e cani a spasso al parco. Ora sono i giovani precari a portare i cani (inventando un altro mestiere), compresi quello dello zio che si è sposato per la terza volta e fa affari in Cina.

Il tema dei più giovani resta una responsabilità dei più vecchi, di solidarietà tra generazioni prima di tutto. Basti pensare al sistema pensionistico che, nel garantire l’oggi, produrrà poveri domani, come ricorda Banca d’Italia.

Il protagonismo di chi fa impresa – e alla fine di chi su un territorio senza confini cerca di rappresentarli – è anche un ritorno al privato, che si fa fenomeno sociale ma non politico.

Le nuove imprese e il loro difficile definirsi, in una idea di transumanza dell’economia reale, di disintermediazione di un precariato identitario, richiamano la funzione di chi – almeno finora – ha servito, interpretato e raccontato il sistema delle imprese. Associazioni ed istituzioni funzionali, ma anche no-profit organizzato. Insomma la “società di mezzo”. Il ruolo della società di mezzo, istituzioni d’area e corpi intermedi ripropone il tema del ripensamento della rappresentanza e si inserisce nella profonda trasformazione che riguarda le istituzioni, la politica, i territori. Chiamare a raccolta i territori in questa stagione significa superare quell’illusione fondamentalista di tenere insieme centro-periferia. È il rischio di una cultura sistemica e centrica, laddove il peripatetico bottom up sembra il gradiente social-politico.

Tanto più il locale cambia – appartenenze di cittadini ed imprenditori –, tanto più viene richiesto un salto di discontinuità nell’interpretare il cambiamento. Anche perché si è al tempo stesso corpo intermedio e parte sociale. La rappresentanza, insomma, è sempre più rappresentazione. Non solo “contarsi”, ma anche “contare” in termini di proposte, idee e presidio dei nuovi contesti glocal. Ripensare i territori dunque,

La disintermediazione, innescata per lo più dall’innovazione e dalla globalizzazione, ridisegna i territori in modo “simbolico”, cioè intorno a qualche funzione prevalente, a qualche caratteristica di riconoscibilità. Questo avviene fra due binari: da una parte, quello dell’organizzazione a rete, dall’altro quello legato ad una presenza pervasiva “porta a porta”, “bottega per bottega, capannone per capannone”.

Forse, per assestamenti implementativi, si potrà arrivare ad uno schema di un territorio univoco, nel quale dovranno coincidere Camere di commercio e Prefetture, Aziende sanitarie e Provveditorati, Province ed Aree metropolitane. Per i sistemi di rappresentanza delle forze economiche (e non solo) il salto del territorio medio, anche per tenuta finanziaria, dovrà forse rafforzare i presidi comunali ed anche sub comunali, un’associazione di secondo livello per le nuove aree vaste, un presidio regionale forte ed anche capace di surrogare i territori e svolgere politiche interfacciabili con le Regioni, tenuto conto del “sopravvissuto” Titolo V della Costituzione. Ed anche un rafforzamento del sistema territoriale e verticale che intercetta le nuove identità dei mille mestieri della modernità, in un nuovo neo-corporativismo professionale ed autoregolante che richiede una regia debole, da integratore di sistemi. Il tutto in un cammino “a salti”, discontinuo ed anche temporaneo. Da un lato, cioè, il raggrupparsi per filiere, dall’altro il nascere (e morire) di federazioni e categorie “temporanee” che siano servizio ed identità delle nuove imprese. In questa logica di “non appartenenza” ed anche di “peso simbolico” delle aree metropolitane del nuovo urbanesimo e dei territori senza racconto, si arrabattano i nostri minotauri istituzionali ed associativi.

Siamo tutti alla ricerca di Teseo e della sua spada, e soprattutto di Arianna (ah, le donne…) che col suo filo chiuda un mondo e ne riapra un altro.

Renato Mattioni

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