15 maggio 2018

EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA: RIQUALIFICAZIONE E MOBILITÀ

In sommessa difesa dell’housing sociale per un nuovo welfare abitativo


Paolo Berdini, commentando su Sbilanciamoci un precedente articolo di Veronica Puja, interviene a ricostruire la pertinace distruzione del sistema di welfare abitativo operata in Italia a partire dagli anni Novanta e che, come scrivevo a suo tempo (2010, Che fine ha fatto il Piano Casa?), subisce un colpo decisivo con lo scippo da parte del governo Berlusconi dei pur pochi 900 milioni che l’uscente Prodi aveva stanziato a favore dell’edilizia pubblica, per destinarli invece a una indiscriminata riduzione dell’ICI sulla prima casa e al nascente sistema dei Fondi Immobiliari (FIA di CDP).

04dagostini18FBCon la legge 9/08 il governo Prodi aveva accompagnato l’ennesimo provvedimento di proroga degli sfratti per categorie deboli con l’istituzione di un Tavolo di Concertazione con una pluralità di soggetti pubblici e privati al fine di impostare un programma di intervento multi-dimensionale e di medio termine (Piano Casa).

Il Tavolo propone una gamma di interventi molteplice e tesa a mobilitare nuove risorse, volte sia all’incremento che alla migliore gestione dell’”alloggio sociale”, cui il governo uscente riusciva a dare in extremis una peraltro insoddisfacente definizione. Soprattutto, si avverte, condizione imprescindibile per affrontare la soluzione del problema abitativo delle fasce deboli è un ritorno importante e programmato del finanziamento pubblico prospettando una necessità quantificabile intorno ai due/tre miliardi di euro all’anno.

Ho ripreso questo momento perché a mio avviso qualcosa di buono di questa impostazione è rimasto nelle vicende successive, nonostante sia proseguito l’assalto al sistema di welfare.

Ed è certamente vero che da allora la situazione è ulteriormente peggiorata, e di molto, e che lo stock pubblico si è mostrato sempre più gravemente insufficiente a far fronte alla domanda sociale, ulteriormente cresciuta in seguito alla crisi e all’immigrazione. Ma se ci limitiamo a un confronto di numeri non capiamo quello che è veramente successo e neppure ciò che occorre fare per rimontare la difficile condizione odierna. Infatti non è diminuito soltanto il numero degli alloggi pubblici, falcidiati dalle vendite e non rimpiazzati da nuovi interventi, ma è diminuita soprattutto l’efficacia dello stock nel rispondere alla domanda.

Con riferimento alla situazione milanese, che è peraltro il punto di partenza dell’articolo in questione, possiamo vedere che, a fronte di un patrimonio Erp ancora consistente, stanno percentuali a due cifre di vuoto, di inabitabile per degrado, di occupato abusivamente e da famiglie prive dei requisiti Erp. E questa situazione non genera solo un deficit di offerta atta a soddisfare la domanda ma anche, e soprattutto, una condizione di cattiva qualità ambientale, di degrado urbano e di guerra fra poveri, che contribuisce ancor più alla spirale senza fine, alla emarginazione e allo stigma negativo dell’edilizia pubblica.

É da qui che occorre ripartire per rimontare la situazione e per restituire all’Erp un’immagine positiva e la dignità che merita. E il primo passo è quello di romperne l’isolamento contaminandola e aprendola verso l’esterno.

Un vero rilancio del welfare abitativo, quindi, non può derivare semplicemente da nuovi anche cospicui finanziamenti se questi saranno volti a realizzare nuovi quartieri o a estendere gli esistenti consolidando il vecchio modello di ERP, isolato e “autosufficiente”. Perché questa modalità è troppo costosa rispetto alla scarsa efficacia nella copertura della domanda; perché tende a riprodurre sottoutilizzo, conflitto e cattiva qualità di vita.

É necessario invece rompere l’isolamento, favorire la mobilità fra i mercati (canone sociale, canone concordato, canone libero, forse anche proprietà) puntando a conseguire in prospettiva un più pieno ed equo impiego del patrimonio abitativo.

Ecco perché a mio avviso dell’housing sociale e dell’esperienza FIA non tutto è da buttare. Ecco perché la collaborazione pubblico/privato appare in questa prospettiva necessaria. Ecco perché infine il mio giudizio sulla legge regionale lombarda non è negativo, anche se è più che lecito dubitare che sarà gestita e applicata nella direzione che auspico: non certo aiutata dall’oggettiva debolezza del “privato sociale” nel settore abitativo.

Per chiarire il mio pensiero non posso non tornare su due esperienze milanesi che ho già trattato su Arcipelago e che ritengo significative: piccole -ma non piccolissime- rispetto alla dimensione dei bisogni, ma soprattutto importanti come direzioni da seguire.

La più recente è ViVi Voltri alla Barona. Un intervento FIA per oltre 300 alloggi di cui 56 a canone moderato e 57 a canone sociale: gli inquilini di questi ultimi individuati attraverso le graduatorie Erp dei Comuni di Milano, Corsico e Cesano Boscone. La cooperativa Dar Casa, che ha in affitto e gestione dal Fondo tutti i 113 alloggi in locazione e che gestisce attività sociali a favore dell’intero complesso aperte anche al quartiere, testimonia un alto grado di soddisfazione degli abitanti e una bassa morosità, a dimostrazione che “un’altra” Erp è possibile”.

Veronica Pujia rileva che “nell’ultimo periodo … con il meccanismo dei fondi immobiliari sono stati costruiti dal 2003 in totale 1939 alloggi, ma soltanto 200 da destinare a canone sociale. Un fallimento gigantesco”. Di massima non si può non concordare, anche se il giudizio andrebbe meglio articolato: in primo luogo considerando anche gli altri alloggi in affitto (canone concordato, moderato, ecc.) prodotti, comunque atti non solo a coprire fasce intermedie di bisogno ma anche a favorire opportune politiche di mobilità; in secondo luogo tenendo conto che, ad esempio a ViVi Voltri, dove il Fondo ha potuto utilizzare un cospicuo finanziamento regionale per gli alloggi a canone sociale e moderato, il risultato è stato ben diverso, col 40% di alloggi in locazione, di cui la metà a canone sociale. Dunque, con una migliore regia nazionale e maggior collaborazione locale il risultato avrebbe potuto essere assai più accettabile.

Sempre nella prospettiva della contaminazione e della mobilità fra le forme di affitto è l’altra esperienza, questa volta nel recupero, delle Quattro Corti di Stadera, ormai ultradecennale e purtroppo mai replicata. Anche qui mix e qualità, urbana e sociale. Due cooperative, Dar Casa e La Famiglia, ottengono da Aler in comodato – oneroso – per 25 anni due di quattro blocchi edilizi a corte dello storico Quartiere Stadera (per un totale di 100 alloggi, 50 per ciascuna corte), con l’obbligo di ristrutturarli e assegnarli a canone concordato a propri soci dotati dei requisiti richiesti. Il tutto nell’ambito di un Piano di Recupero che per le altre due corti prevedeva la stessa forma di intervento attuata direttamente da Aler con la possibilità di spostare nei nuovi alloggi a canone concordato chi non avesse più i requisiti per rimanere nel canone sociale.

Esemplare: le Quattro Corti rimettono in circolo 200 alloggi pubblici da tempo inutilizzati, ospitando soggetti comunque bisognosi (la maggior parte avrebbe i requisiti per il sociale, ma in mancanza di offerta accetta di pagare di più), le cooperative sviluppano azioni di inserimento e di coesione sociale e stimolano partecipazione e iniziative che hanno riflessi positivi sull’intero Quartiere, contribuendo a contenere e ridurre abusivismo e illegalità.

Si tratta evidentemente di politiche complesse, che richiedono la collaborazione di più soggetti e una sapiente guida dell’ente locale, ma che se perseguite con convinzione e decisione possono dare risultati in tempi anche non troppo lunghi. Come sembra in qualche modo dimostrare la recente esperienza dell’amministrazione milanese, che sta concretamente operando per mantenere l’impegno a ristrutturare e assegnare i 3000 alloggi sfitti del patrimonio comunale entro il quinquennio; e che, per l’accordo sul rientro della morosità pregressa, sembra riscuotere il plauso anche dei settori più critici dei sindacati inquilini (Arcipelago n. 16).

In conclusione, non c’è dubbio che per rilanciare il welfare abitativo occorra rivendicare la ripresa di un robusto e sistematico finanziamento statale; da utilizzare però non tanto per nuove costruzioni quanto per sostenere politiche abitative locali volte al recupero del non utilizzato e ad accompagnare quella mobilità abitativa che è indispensabile per un più pieno ed equo edilizio dello stock esistente.

Quanto alla scarsa efficacia della spesa indirizzata a favore del vecchio modello basti pensare ai Programmi Regionali ERP dei primi anni duemila che, benché dotati di risorse cospicue – superiori al miliardo di euro – hanno prodotto, e in tempi lunghi, incrementi di stock pubblico molto piccoli. Ma è anche la storia dei “20.000 alloggi in affitto” del Piano Verga milanese (2005) o del Piano Nazionale POR del 2002.

Anche per questo, non mi pare da buttare la svolta di Regione Lombardia che, con la legge 16/2016, riconoscendo le diverse forme di offerta abitativa pubblica e sociale come un tutto unico e affidando al sostegno dei Comuni (e qui servono i soldi dello Stato e della Regione) le condizioni più estreme di disagio, sembra indicare una strada diversa, che persegue il mix sociale e funzionale, la mobilità fra le forme di offerta abitativa, il recupero dello sfitto e sottoutilizzato.

Allo stesso modo, per non buttare il bambino con l’acqua sporca, sarebbe probabilmente possibile migliorare l’efficacia sociale dell’intervento FIA, se il sostegno nazionale (e regionale) consentisse, con una riduzione dei tassi, di aumentare le quote di affitto e soprattutto quelle rivolte al canone sociale (vedi ViVi Voltri).

Fermo restando che, in aree metropolitane dense come quella milanese, la strategia delle quote riservate alla locazione sociale nei grandi interventi, che è anche quella del PGT di Milano, è urbanisticamente almeno contraddittoria perché induce consumi di suolo molto rilevanti a favore di una domanda abitativa certamente non prioritaria, come mostrano alcune difficoltà nelle vendite di abitazioni nei nuovi interventi, anche di social housing.

Meglio quindi puntare su recupero e riqualificazione piuttosto che su nuove costruzioni.

Sergio D’Agostini

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